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Democrazia

Il vocaboolo ‘democrazia’ ha origini greche, da demos e kratos = ‘governo del demos’ ed indica una delle tre basilari forme di governo, vale a dire una delle modalità in cui il potere politico viene esercitato e, quindi, uno dei modelli fondamentali di organizzazione del sistema politico: monarchia – in cui il governo è in mano a uno solo –, aristocrazia – in cui il governo è in mano a pochi, eminenti per ascendenza – e democrazia appunto – in cui il governo è in mano a molti. Peraltro, vale la pena notare come il riferimento al demos contenga una potenziale ambiguità: da una parte, il demos rappresenta l’intero corpo dei cittadini, quindi è termine tendenzialmente includente e avalutativo, che definisce un insieme di persone privo di un’identità specifica; dall’altra, connota più precisamente il popolo, in contrasto con le fazioni nobiliari. Quindi è termine che comporta potenziali esclusioni e si presta a un uso valutativo. I membri del demos, in questa seconda accezione, sono portatori di un’identità. Inoltre, il riferimento al kratos, che significa ‘potere’, ‘potenza’ ma anche ‘violenza’ è probabilmente spia di un’originaria accezione negativa, che coglieva gli aspetti di prevaricazione sulla legge insiti nel governo del popolo.
 
Democrazia non è sinonimo di sovranità popolare. Infatti, detto «sovranità» il sommo potere connesso all’esercizio delle funzioni di ogni sistema politico, la teoria della sovranità popolare asserisce che il sommo potere politico appartiene al popolo. Come tale essa coglie una delle caratteristiche specifiche degli Stati moderni in cui il sommo potere, che coincide con il potere legislativo, deriva la propria legittimazione dal fatto di essere esercitato da rappresentanti del popolo . Coloro che sono attivi in democrazia sono i cittadini, vale a dire i soggetti detentori della cittadinanza. L’insieme dei cittadini non coincide ovviamente con l’insieme degli individui residenti in un determinato territorio, in quanto i cittadini sono definiti dal possesso di determinati requisiti attinenti all’età, al sesso, all’origine, al censo ecc. Allo status di cittadini corrispondono determinate facoltà e incombenze, determinati diritti e doveri, per usare due termini moderni che, in rapporto alla democrazia ateniese, risulterebbero anacronistici. Di democrazia oggi si parla in molti sensi: si può distinguere tra democrazia formale, attinente all’uguaglianza giuridica e alle procedure messe in atto, e democrazia sostanziale, attinente alle condizioni di uguaglianza sociale ed economica, che dovrebbero costituire la premessa e il risultato dei processi democratici8. Ancora, di democrazia oggi si parla anche al di fuori dell’ambito più strettamente politico, per fare riferimento a un metodo per prendere decisioni nel mondo del lavoro, della scuola ecc. – il datore di lavoro che decide di concerto con i dipendenti, il docente con gli studenti, e via dicendo. In questo senso si ha riguardo ai processi di democratizzazione della società. Tornando alla democrazia classica, il primo problema da porsi consiste nel domandarsi se sussista o meno un filo di continuità con la democrazia contemporanea. Ha senso porsi il problema di un nucleo immutabile della democrazia? Ha senso chiamare la democrazia greca «democrazia»? Per un verso, infatti, le istituzioni della democrazia greca erano completamente diverse dalle nostre. Inoltre, la democrazia greca prevedeva una partecipazione estremamente limitata, visto che non erano cittadini né le donne, né gli stranieri, né gli schiavi. D’altra parte, si può anche osservare che tutto cambia: il sole, l’acqua che guardavano i greci non sono il sole e l’acqua che guardiamo noi. Per esempio, oggi pensiamo che il sole sia una stella, distante circa 150 milioni di chilometri, composta in massima parte da elio e idrogeno, in cui avvengono reazioni termonucleari ecc. Come pensiamo che ci sia identità tra il sole dei greci e il nostro, così, autorizzati da una continuità lessicale, possiamo usare il termine ‘democrazia’ per parlare del loro sistema politico, come del nostro. Vi è poi un’altra considerazione, di natura ‘pragmatica’ che ci viene in soccorso e che può essere mobilitata in risposta alla domanda sul perché la conoscenza della democrazia ateniese sia rilevante per la comprensione della democrazia ‘dei moderni’, anche se i quadri socioeconomico e istituzionale sono mutati così profondamente. Si tratta del fatto che i problemi discussi dagli antichi in rapporto al governo democratico si ritrovano nei secoli successivi, segnando l’agenda del dibattito filosofico-politico occidentale. Per tutti questi motivi, vale la pena di interrogarsi ancora sulla forma di governo dell’Atene classica e di riferirsi a essa con il nome di ‘democrazia’. 

L’origine della democrazia si pone al culmine di un processo secolare di trasformazione della società greca, dopo l’eclissi del potere dei re-sacerdoti e l’ascesa delle poleis. Il contesto economico e sociale è segnato da instabilità dovute a ripetute ondate migratore, progressi tecnici nella navigazione, intensificazione degli scambi commerciali, fondazione di colonie. La polis racchiude una comunità, organizzata intorno all’acropoli – l’area dei templi – e all’agorà – la piazza – che progressivamente acquisisce consapevolezza del proprio carattere specifico. In un primo tempo il governo della polis è in mano alle famiglie aristocratiche, che devono la loro ricchezza al possesso della terra, ma in seguito le altre fasce della popolazione reclamano un miglioramento della loro condizione e un maggior coinvolgimento nella gestione della cosa pubblica. Questa vicenda è evidente nella storia di Atene. Atene non fu sicuramente l’unica polis organizzata democraticamente ma, in virtù del suo prestigio, è quella di cui conosciamo meglio l’organizzazione. Ad Atene Solone, eletto arconte, vale a dire sommo magistrato, all’inizio del VI secolo a.C., pose mano a una riforma complessiva dell’organizzazione politica e sociale della città, distinguendo quattro fasce di censo, pentacosiomedimni, cavalieri, zeugiti e teti, a cui corrispondevano diversi gradi di partecipazione alla vita politica – solo le prime tre classi potevano accedere alle magistrature, ma anche i teti potevano partecipare all’assemblea. Inoltre, Solone varò diverse misure volte a indebolire le strutture del potere aristocratico: in particolare, abolì la schiavitù per debiti e ridusse il potere dell’Areopago, l’organo attraverso il quale gli esponenti delle famiglie nobiliari avevano sino ad allora governato Atene.

Gli anni successivi alla riforma di Solone sono segnati prima dalla parentesi della tirannide di Pisistrato, il quale governò Atene, con alcune interruzioni, dal 560 a.C. circa al 527 a.C., senza peraltro cancellare, almeno formalmente, le riforme di Solone, e in seguito da una fase storica convulsa, coincidente con il tentativo dei figli di Pisistrato, Ippia e Ipparco, di perpetuare il potere del padre. Infine, l’assetto democratico fu ristabilito negli ultimi anni del secolo – nel 508-507 a.C. – da Clistene.

Clistene, senza detenere la carica di arconte, mise mano a una radicale riforma sociale e politica. Questo fu possibile, nonostante l’opposizione della maggior parte dell’aristocrazia, grazie all’appoggio popolare e a quello dei membri della famiglia degli Alcmeonidi – esiliati durante la tirannia di Pisistrato. Clistene abolì le quattro tribù censitarie istituite da Solone e ripartì i cittadini in 10 tribù territoriali. Tutta la regione su cui Atene esercitava il proprio controllo, l’Attica, fu suddivisa in tre aree: la città, la costa e le zone interne. A sua volta, ciascun’area era suddivisa in demi – 139 in totale. Ciascuna tribù, infine, constava di un numero variabile di demi, scelti tra le tre aree. Il risultato era che ciascuna tribù risultava dall’aggregazione di demi della città, demi costieri e demi delle zone interne. Questa macchinosa architettura era finalizzata a produrre un rimescolamento della cittadinanza, rompendo l’unità delle vecchie tribù fondate sul censo.

Oggi può sembrare incongruo e ‘antidemocratico’ che gran parte delle cariche fosse assegnata per estrazione a sorte. La ragione essenziale di questa scelta, come ha argomentato il politologo Bernard Manin, può essere ricostruita come segue: l’estrazione a sorte realizzava nel modo più completo il principio cardine della democrazia ateniese, vale a dire il principio di rotazione delle cariche. L’azione dei magistrati era controllata dall’assemblea cui essi dovevano rendere conto. Il fatto che le magistrature fossero estratte a sorte e avessero una durata limitata nel tempo assicurava una circolazione tra assemblea e magistrati. Sia i componenti dell’assemblea, sia i magistrati, sapendo che in breve volgere di tempo avrebbero potuto trovarsi a parti invertite, erano incentivati a operare correttamente: i magistrati non violando i propri doveri e i membri dell’assemblea non abusando del proprio potere di controllo. Inoltre, estrazione a sorte e rotazione delle cariche assicuravano un ampio coinvolgimento dei cittadini, che andava in parte a compensare la limitata partecipazione alle sedute dell’assemblea. In questo senso, l’estrazione a sorte e la rotazione delle cariche rappresentavano un completamento dell’isegoría. Al contrario, i meccanismi elettivi e la professionalizzazione della politica erano visti come un pericolo. I professionisti egemonizzano la politica, in quanto la libertà di eleggere comporta la libertà di rieleggere: contando sulle proprie qualità salienti cercano di monopolizzare l’agone politico, con ciò annullando di fatto l’uguaglianza fra i cittadini.

Sin dagli albori della storia greca sussiste uno stretto legame tra l’organizzazione militare (e religiosa) della polis e la sua organizzazione politica. I re sono anche capi militari. Più tardi gli esponenti delle famiglie aristocratiche ricopriranno anche i ruoli di generali nelle campagne belliche. I cittadini sono gli uomini in armi. La corrispondenza tra organizzazione militare e organizzazione politica è ancora evidente nella riforma di Solone, laddove i cavalieri sono quei cittadini sufficientemente ricchi da poter disporre di un cavallo in battaglia, mentre gli zeugiti sono coloro che possedevano le ricchezze necessarie per coprire il costo dell’armatura e schierarsi come opliti (fanteria pesante). Non casualmente, il decisivo trasferimento di poteri dall’aristocratico Areopago all’ekklesía a prevalente composizione popolare avviene nel momento in cui il contributo dei teti come rematori sulle navi da guerra diventa indispensabile e quindi questa categoria, finora di fatto esclusa dalla vita politica, può reclamare un maggior coinvolgimento. Su questo sfondo si innestano le dinamiche sociali e i conflitti tra le famiglie più abbienti e la massa dei cittadini dotati di scarse risorse economiche. Anche da queste notazioni si vede come la democrazia ateniese nasca come metodo per organizzare la comunità, nel tentativo di costruire uno spazio politico esente dalla minaccia del conflitto interno, la stasis. Pertanto, è possibile giudicarla sotto il profilo della sua efficienza organizzativa. L’aspetto della valutazione ‘ingegneristica’ non va confuso con quello della valutazione assiologica. Oggi, infatti, noi riteniamo che il coinvolgimento di tutti nella gestione della cosa pubblica sia un valore e costituisca un diritto (in capo ai singoli soggetti). Platone e Aristotele giudicavano la democrazia essenzialmente dal punto di vista di una riflessione sui metodi più efficaci di gestire la polis in rapporto al conseguimento del bene comune. In quest’ottica non c’è da stupirsi se la democrazia fosse criticata in quanto realizzava un’inopportuna prevalenza della componente popolare.

Il primo autore a discutere dei meriti e demeriti delle diverse forme di governo è stato lo storico Erodoto di Alicarnasso (490/480-430 ca. a.C.). Nel terzo libro della sua opera Le storie, Erodoto inscena una discussione, che si sarebbe svolta in Persia, fra tre personaggi che presentano i rispettivi meriti delle tre principali forme di governo, governo del popolo, oligarchia e monarchia. Il sostenitore dei meriti del governo popolare, Otane, ritiene che questa forma di governo sia preferibile in quanto evita la minaccia che il monarca abusi del proprio potere. Venendo più specificamente al dibattito sulla democrazia ateniese, una delle prima discussioni in merito è contenuta in uno scritto di ignoto autore, la Costituzione degli Ateniesi – conosciuta anche con il titolo La democrazia come violenza –, detta dello Pseudo-Senofonte perché tramandata nel corpus delle opere di Senofonte. In questo breve trattato, che potrebbe risalire al periodo immediatamente successivo alla morte di Pericle, quindi alla fine del V secolo a.C., la democrazia viene descritta come il regime dove comanda la gente del popolo a danno delle famiglie nobili. L’autore, conosciuto come il ‘Vecchio Oligarca’, sostiene che questo stato di cose è una conseguenza del fatto che le fasce più basse della popolazione hanno guadagnato una sempre maggior importanza in seguito all’aumento della potenza militare navale di Atene. Grazie al governo democratico i poveri perseguono il proprio esclusivo interesse, sperperando il denaro pubblico e quello estorto alle città alleate di Atene. Un’altra importante testimonianza sulla democrazia ateniese la troviamo nel discorso che lo storico Tucidide (460 ca.-398/396 a.C.) fa pronunciare a Pericle nella sua Storia della guerra del Peloponneso. Nella ricostruzione di Tucidide, l’orazione funebre di Pericle per i caduti in battaglia ateniesi è costruita come un elogio della forma di governo della città. Pericle afferma infatti che il contrassegno della democrazia è dato dal perseguire il bene dei più, non quello di una ristretta minoranza e dal sostanziarsi in un assetto istituzionale nel quale vige l’uguaglianza di fronte alla legge e l’apertura delle cariche per i più meritevoli. Tuttavia, le parole di Pericle contengono anche elementi di ambiguità, elementi che hanno fatto sostenere a Luciano Canfora che il discorso di Pericle tradisce la consapevolezza di Tucidide dei pericoli insiti nel governo della maggioranza. 

Platone nacque ad Atene nel 428-427 a.C. e morì nel 348-347. Visse quindi in un periodo di decadenza della democrazia. Fra l’altro, fu un tribunale popolare democratico che condannò a morte ingiustamente nel 399 a.C. il suo maestro Socrate. Non c’è da meravigliarsi quindi che il suo giudizio sulla democrazia sia assai critico. 

Il dialogo platonico più famoso, la Repubblica, presenta un’utopia della città perfetta, governata dall’elite filosofica, con una rigida divisione della popolazione in classi e un penetrante controllo della vita privata – che comporta l’abolizione della famiglia naturale e della proprietà. Questo ordinamento è visto da Platone come un rimedio alle tendenze degenerative che affliggevano l’Atene del suo tempo, in cui i detentori del potere blandivano le pulsioni acquisitive del popolo per riceverne l’appoggio. Esso mostra una discontinuità profonda rispetto all’organizzazione dell’Atene democratica, imperniata sul principio di rotazione delle cariche e sul sorteggio. Al tempo stesso, promette di implementare un modello basato sulla natura. Infatti, dal momento che gli uomini non sono uguali per natura, si tratta di individuare un assetto che tenga conto delle differenze antropologiche tra gli individui, neutralizzando i pericoli che minacciano la sopravvivenza della polis, in primo luogo quello della spaccatura in gruppi distinti, in competizione fra loro, e instaurando un sistema nel quale la vocazione demagogica dei leader non trovi spazio. Platone mette così a fuoco la principale criticità del governo democratico: si tratta della costitutiva dipendenza dei leader dal favore della maggioranza, dipendenza che li porta ad assecondarne i desideri a scapito del perseguimento del bene comune. Per questo motivo si rende necessaria l’instaurazione di una forma di governo diversa, in cui la leadership sia assegnata a soggetti che possano governare senza dover dipendere da volontà e desideri esterni, concentrandosi unicamente sul bene dell’intera comunità. Ma affinché ciò sia possibile i governanti non dovranno essere distratti da interessi privati, pertanto non potranno possedere ricchezze. Infatti, se essi si riappropriano dei beni materiali, le tendenze degenerative che affliggono la polis riaffiorano e si innesca una catena discendente di forme di governo corrotte che dall’ottima repubblica conduce alla timocrazia, all’oligarchia, alla democrazia – stigmatizzata in quanto governo dei poveri contro i ricchi, esito della libertà che diviene licenza –, fino alla tirannide.

In un altro importante dialogo, il Politico, Platone sostiene che la politica è una scienza difficile che può essere padroneggiata solo da poche persone. L’uomo politico è simile al tessitore nel senso che deve saper intrecciare le diverse competenze necessarie per il governo della polis. Pertanto, l’arte politica non può essere esercitata dalla massa incolta. Platone introduce anche una tassonomia che sarà ripresa da Aristotele e distingue fra sei tipologie di forme di governo, tre rette e tre corrotte, segnate da violenza e illegalità, rispettivamente monarchia, aristocrazia e democrazia secondo le leggi, e tirannia, oligarchia e democrazia contra legem. Tra queste la democrazia è la peggiore delle forme rette – la migliore è la monarchia – e la migliore delle forme corrotte – la peggiore è la tirannia. Se ne deduce che la democrazia è scarsamente ‘efficiente’, nel bene come nel male. Per trovare una valutazione più positiva delle istituzioni democratiche dobbiamo andare a un dialogo tardo, le Leggi, probabilmente completato dall’allievo Filippo di Opunte dopo la morte del maestro. Qui Platone immagina una comunità ideale, avente tuttavia caratteristiche meno radicali di quella della Repubblica: il controllo sulla sfera privata è solo parziale, nel senso che viene ristabilita la famiglia naturale e la proprietà – le ricchezze individuali e le disuguaglianze, tuttavia, devono attestarsi entro certi limiti per evitare il rinascere delle conflittualità. Inoltre, vengono recuperate le istituzioni democratiche, attenuando l’idea, già esposta nel Politico, secondo la quale solo pochi sono competenti nell’arte di governo. L’elemento democratico viene sottolineato anche nel senso che qui Platone afferma, a differenza dei dialoghi precedenti, che sono due «le madri» di tutte le costituzioni esistenti: monarchia e democrazia, mentre le altre derivano da esse. L’elemento progettuale, che si ricollega all’eredità della Repubblica, è presente nella legislazione minuziosissima e in molti casi innovativa, volta alla completa regolazione delle condotte, che disciplina ambiti come l’educazione, il culto, l’organizzazione del lavoro, la vita sociale, il commercio, i crimini. Questa esplosione normativa segnala probabilmente la minor  fiducia dell’anziano Platone nella capacità del governante di assicurare la fioritura della polis. L’organo che ricorda più da vicino il collegio dei re-filosofi della Repubblica è il Consiglio notturno, un comitato di saggi cui è affidata l’unificazione dell’organizzazione politica.

In sostanza, le critiche principale rivolte alla democrazia da Platone e dai suoi predecessori potrebbero essere compendiate in due punti: a) essere un regime ‘disordinato’, nel quale una parte prevale sulle altre e governa nel proprio esclusivo interesse; b) non poter garantire l’adeguata competenza da parte dei detentori del potere. Ora vedremo in che modo a queste critiche risponde Aristotele. Aristotele nasce a Stagira, in Tracia, nel 384 a.C. Quindi è un meteco, uno straniero, non un cittadino di Atene. È allievo di Platone ad Atene. Dopo la morte del maestro si reca in Macedonia dove sarà precettore di Alessandro Magno. Muore nel 322 a.C. Con Aristotele si definisce il modello organicista di giustificazione del potere politico. Nel suo scritto principale di argomento politico, la Politica, Aristotele si propone di intraprendere una riflessione sul bene dell’uomo e sul modo di organizzare la vita comune in vista del suo perseguimento. Il punto di partenza della riflessione di Aristotele è l’idea secondo la quale l’uomo è un essere predisposto alla vita all’interno di una comunità: solo all’interno di una comunità l’uomo può conseguire il suo bene. Vi sono tre tipologie fondamentali di comunità: la famiglia, il villaggio, la polis. Esse sono istituzioni naturali in quanto fondate su pulsioni – pulsione sessuale, desiderio di sopravvivenza – innate, quelle stesse pulsioni che Platone aveva cercato di imbrigliare nella Repubblica. I rapporti di potere che vigono nelle comunità si fondano e si giustificano a partire da differenze naturali, nello stesso modo in cui le differenze fra il padrone e gli schiavi, il marito e la moglie, il padre e i figli si radicano su diverse dotazioni di base. Inoltre, tali differenze definiscono un ordine gerarchico.

Un punto controverso della teoria aristotelica è la sua giustificazione della schiavitù. Al tempo di Aristotele la schiavitù era estremamente diffusa e nessuno prima di lui aveva avvertito la necessità di giustificarla. Aristotele ritiene che la schiavitù sia giustificata sulla base del deficit cognitivo degli schiavi, deficit che li rende inidonei a svolgere compiti più che esecutivi. L’argomento di Aristotele tradisce un pregiudizio verso i lavori esclusivamente manuali e si correla con l’idea che la decadenza delle istituzioni politiche ateniesi sia dipesa dalla massiccia urbanizzazione e dall’ingresso in politica di masse incolte distanti dalla figura archetipica del piccolo proprietario terriero. La polis viene vista come prosecuzione naturale della famiglia. Tuttavia, la polis è anche anteriore alla famiglia e agli individui: rappresenta il Tutto a partire dal quale è possibile comprendere il ruolo delle parti e coordina in un certo senso i rapporti di dominio sottostanti. L’orientamento complessivo è comunitario. In questo assetto nessuna famiglia, né alcun individuo è più importante degli altri. Nel modello organicistico l’ambito dei rapporti privati anteriori alla costituzione del potere politico non va visto in opposizione a esso ma come una sua precondizione. Ne risulta che l’impostazione aristotelica è segnata da un marcato contrasto con la tradizione moderna, in cui il potere dello Stato sarà derivato dal potere naturale degli individui. Aristotele critica la concezione platonica della famiglia e della proprietà sostenendo l’implausibilità del paradigma della Repubblica. Questa critica si innesta su un atteggiamento di fondo: Aristotele, a differenza di Platone, non ritiene che lo scopo della filosofia sia quello di progettare dalle fondamenta un modello ideale di comunità. Dal momento che la comunità politica rappresenta una prosecuzione della famiglia e del villaggio, la polis non può che conservare gli assetti e le forme di potere preesistenti. L’indagine filosofico-politica ha piuttosto come scopo quello di elaborare una serie di precetti rivolti al legislatore che consentano a quest’ultimo di rettificare l’assetto politico esistente.

Testi consultati:

- Balibar, E. Cittadinanza. Torino: Boringhieri, 2012;
- Bobbio, N.  Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico. Torino: Einaudi, 1995;
- G. Cambiano. Polis: un modello per la cultura europea. Roma-Bari: Laterza, 2000;
- Costa, P. Cittadinanza. Roma - Bari:  Laterza, 2005;
- Finley, M. I.  La democrazia degli antichi e dei moderni (ed. or. 1985), Roma-Bari: Laterza  2010
- Matteucci, N. Lo Stato moderno. Bologna: Il Mulino, 1993;
- Mossé, C.  Pericle. L’inventore della democrazia (ed. or. 2005). Roma – Bari: Laterza,  2006;

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
email: prof_biblio_lodesal@yahoo.com