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Guardati dalle Idi di Marzo

Cesare entro’ nella Curia di Pompeo intorno alle undici del mattino, in ritardo rispetto all’ora fissata per la seduta del Senato e senza rendersi conto del pericolo imminente. Con lui c’era Decimo Bruto, che lo aveva raggiunto nella Regia per persuaderlo a recarsi all’assemblea, avendo appreso che intendeva rinunciarvi, poiche’ nel corso della notte non era stato bene e per i turbamenti della moglie. Calpurnia aveva scongiurato il marito sino all’ultimo di rimanere a casa per l’incubo che l’aveva sconvolta mentre dormiva, quando aveva visto in sogno che lui era stato assassinato nel suo grembo e che il tetto della domus publica era crollato.

Erano le idi di marzo del 44 a.c. Se il Dittatore avesse disdetto la sua presenza, gli uomini che avevano deciso di eliminarlo avrebbero mancato il loro lugubre appuntamento con la Storia, giacche’ dopo tre giorni egli sarebbe partito per l'oriente, da dove contava di tornare non prima di tre anni.

Al suo fianco non c’erano ne’ Marco Antonio, ne’ Marco Lepido: l’uno si era fermato a parlare all’ingresso della grande esedra reattangolare con Gaio Trebonio; l’altro era andato ad ispezionare le sue truppe, sull’isola Tiberina, con le quali era in procinto di partire per la Gallia Narbonese e la Spagna Citerone, le due province proconsolari avute in comando dal dominus di Roma.

Entrambi erano uomini della sua cerchia piu’ ristretta. Giulia, la madre di Antonio, apparteneva ad un ramo della gens Iulia diverso da quello del Dittatore. Suo padre (Lucio Giulio Cesare) era stato console nel 90 a.C. e suo fratello nel 64 a.C., ma non era stata la parentela a favorire Antonio, bensi’ le vicende in cui aveva servito Cesare con onore. Dopo essere stato suo questore in Gallia nell’ultima parte della conquista, in qualita’ di tribuno della plebe il 6 gennaio del 49 a.C. egli aveva opposto il suo veto al decreto con cui il Senato voleva dichiarare Cesare nemico pubblico e toglergli il comando delle legioni. Costretto a fuggire a Roma nella notte vestito da schiavo, lo aveva raggiunto nella Gallia Cisalpina e affiancato nella prima fase della caccia a Pompeo, al di qua del Rubicone. Nella battaglia di farsalo egli aveva guidato il fianco sinistro dell’esercito di Cesare, che aveva tenuto per se’ quello destro. Riconosciuto come il braccio destro militare del comandante supremo, Antonio aveva svolto bene il suo compito e contributo a sfondare la muraglia umana eretta dal grande generale piceno.

Caduto successivamente in disgrazia, per la sua infelice reggenza durante le operazioni di Cesare in Oriente (a caccia di Pomepo, alla corte di Cleopatra e nella guerra lampo contro Farnace), Antonio era riuscito a guadagnare di nuovo il favore di Cesare e il consolato nel 44 a.C.

Lepido era l’esponente di una delle piu’ antiche famiglie patrizie di Roma, la gens Aemilia, figlio del console caudto nella lotta contro il potere dell’oligarchia senatoria restaurato da Silla, all’indomani della vittoria di Porta Collina in cui aveva massacrato 80 mila mariani, Il suo legato, Marco Giunio Bruto (padre del cesaricida), era stato giustiziato a freddo da Pompeo. Tra il 48 e il 47 a.C. l’ex pretore aveva governato la Spagna Citerione e nel 46 a.C. era stato eletto console, prima di assumere l’incarico di capo della cavalleria al posto di Antonio e di diventare quindi il numero due dello Stato.

Con Cesare quella mattina del 15 marzo, non c’erano nemmeno le sue guardie personali. I duemila uomini di scorta spagnoli li aveva congedati appena nominato Dittaore a vita il 14 febbario, considerandosi ormai intoccabile per la quantita’ di poterei che aveva accumulato e perche’ il Senato aveva garantito di proteggerlo cpon un corpo di guardia formato da senatori e cavalieri.

Quando il padrone di Roma comparve al cospetto dell’assemblea senatoria tutti si alzarono in piedi in segno di deferenza e di obbedianza, mentre i congiurati incaricati di colpirlo si piazzarono a ridosso del segio devo stave per sedersi. Li conosceva tutti: alcuni erano suoi fedelissimi, altri li aveva favoriti, altri ancora li aveva graziati e premiati pure avedo combattuto contro di lui nelle file pompeiane.

Non appena egli prese posto, alcuni sentaori gli si avvincarono per presentargli le loro suppliche. Uno dei postulanti era Cimbro. Con il pretesto di chiedergli la grazia in favore di una fretllo esiliato, egli si getto’ ai suoi peidi e con entrabe le mani afferro’ la sua toga, bloccandolo. Era il segnale per la mattanza. La prima pugnalata la inferse Publio casa sotto la goòa deò supo bersaglio umano, da dietro; Gaio Casca assesto’ a Cesare la seconda in pieno petto, l’unica ritenuta mortale dal suo medico personale Antistio.

La reazione dell’uomo che fino a pochi minuti prima era onnipotente, e ammanato dalla dinivita’, fu rabbiosa e vana: tento’ di alzarsi ma non ne ebbe il modo piiche’ era pressato dagli attentatori, ognuno dei quali voleva prendere parte al sacrificio e, come afferma Plutarco, guastare iòl suo sangue senza badare al rischio di farsi male l’un l’altro: nel parapiglia Cassio feri’ Bruto a una mano e Lucio Minucio colpi’ Rubrio Ruga alla gamba.

Al grande condottiero mancarono l’impeto, la detreminazione, la furia e la voglia di vivere che lo avevano salvato a Muda, dove aveva combattuto la sua battaglia piu’ difficile e pericolosa, forse l’unica in cui aveva guardato la morte negli occhi. Nel turbinio delle pugnalate egli dovette cadere e, quando capi’ che stava per morire, copri’ il corpo con la toga lascindosi cadere sotto la statua di Pompeo, mentre i cospiratori continuavano a colpire. Gridando il nome di Cicerone, Bruto lo pugnalo’ all’inguine, procurandogli una delle ventitre ferite di cui sia notizia da tutte le fonti, fatta eccezione da Nicola di Damasco che ne attesta trentacnque.

Da solo (nei fatti) all’ingresso della Curia di Pompeo, Cesare si ritrovo da solo anche all’appuntamento con la morte, L’uomo che il talento militare e politico aveva alzato a sfere celstiali di fama e di prestigio e che, salito al potere supremo, non aveva mai potuto fare un passo senza la compagnia sin troppo zelante degli amici veri e il codazzo adulatorio di quelli poi subdoli, fu abbandonato da tutti. Appena che dei suoi tanti devoti cercarono di fermare d’impulso gli assalitori, Gaio Salvino Calvisio e Lucio Marcio Censorino, prima di fuggire, gli altri erano fuggiti subito pensando unicamente a se stessi.

Svetonio racconta che, secondo alcune testimonianze che non documenta, rivolto a Bruto mentre si avventava su di lui Cesare avrebbe detto: ”Anche tu, figlio”? Il biografo non si e’spinto fino al punto di fare propria la presunta esclamazione dello statista morente, avvaendosi di una formula dubitativa. Ma anche in questo modo e’ da lui che e’ sgorgata tanta fertile immaginazione sulla personalita’ del congiurato e di quella della madre Servilia Cepione.

Nella sua biografia cesariana Plutarco trascura il passo svetoniano, nella Vita di Bruto lo riporta per accntuare la drammaticita’ del proprio racconto, pur senza storicizzarlo con una cifra letteraria assertiva, al fine di rappresentare probabilmentebun sospetto di molti: Bruto sapeva dei rapporti tra Cesare e Servilia e che a Roma di diceva che aera il figlio illegittimo di lui, tuttavia aveva deciso di diventare l’anima della congiura giacche’ il suo integralismo repubblicano non poteva tollerare che Roma fosse finita nelle mani di un desposta giunto, secondo Jerome Carcopino, alla sua “suprema usurpazione.

Tutto si svolse in fretta nell’attacco a Cesare e nella Curia di Pompeo in fretta si passo’ dallo stupore al terrore. Mentre il dittatore agonizzava sotto la statua del grande rivale, macchiata alla base dal suo sangue che colava copioso. Bruto tento’ di dire qualcosa sul gesto estremo compiuto assiema agli altri ventidue pugnalatori. Con tutta probabilita’ intendeva affermare che la patria fosse stata liberata dalla tirannide e chiedere al Senato di sancirne per decrato la legalita’. Ma non riusci’ a dire nulla perche davanti alla brutalita’ dei colpi inferti da lui e dai suoi seguaci, e alla dignita’ con cui Cesare viveva i suoi aultimi atti, nel luogo dell’attentato si scateno’ il putiferio. Tutti i senatori fuggirono a precipizio verso l’uscita urtandosi l’un l’atro e le loro grida innescarono la fuga altrettanto irreunte e caotica dei cittadini che stavano assistendo ad uno spettacolo di gladiatori nel vicino teatro di Pomepo, ignari di cosa fosse accaduto.

In poco tempo la notizia dell’attentato fece il giro di Roma: le strade si svuotarono, le botteghe e i mercati vennere chiusi e l’intera citta’ piombo’ in un clima cupo, preannunciando i cataclismi citati da Virgilio in fopndo al primo libero delle Georgiche. Se la fine di Cesare era stata una liberazione, per ora aveva liberato unicamente l’orrore per la vioenza degli assassini e lo sgomento per la morte di uomo che una larga parte del popolo considerava u semidio, nonche’ l’euforia sconsiderata di chi, non avebdo capito la gravita’ della tragedia, non poteva intuire la portata dei lutti che avrebbe prodotto all’interno di una comunita’ priva di concordia sociale sin dalla distruzione di Cartagine, secondo il giudizio ben documentato da Sallustio nella “Guerra contro Giugurta”.  La fine della minaccia del pericolo esterno aveva cominciato da allora a far scorrere nelle vene dei Romani il veleno della cupidigia e della corruzione a danni dei mores maiorum  tanto osannati in ogni sua opera da Cicerone.

E’ possibile che l’euforia di pochi cittadini per la morte di Cesare avesse fatto presa anche sui senatori repubblicani che maggiormente si erano prodigati nel proporre per lui onori persino imbarazzanti, mentre e’ certo che non pochi cesariani cercarono di saltare subito sul carro dei presunti vincitori al fine di tramutare le Idi dimarzo da grande rischio di partito in grande vantaggio peronale, senza alcun pensiero per il cadavere che rimase sul luogo dell’attentato fino a quando tre schivi lo riportarono a casa, passando per il Foro, dopo averlo deposto sulla lettiga che alcune ore prima aveva trasportato Cesare da vivbo alla sua bitazione posta sulla Via Sacra alla Curia pompeiana posta nella zona settentrionale del Campo Marzio.

Quella scena e’ giutan sino a noi tramite Nicola di Damasco convinto estimatore dello statista defunto ed amico personale del suo erede testamentario e politico, Augusto: “Poiche’ le cortine erano sollevate da entrambi le parti, si potevano vederev le mani ciondoloni e il volto ferito.

Allora non c’era chi non piangesse alla vista di quell’uomo da tempo onorato come un dio... Quando fu vicino a casa, il pianto si fece piu’ forte: la moglie si precipito’ fuori con molte donne e servi, invocando il marito e compiangendo se stessa perche’ invano gli aveva detto di non uscire quel giorno; ma ormami un destino molto piu’ potente, al di la’ di quanto lei si aspettasse, era piombato su di lui.

Tre schiavi  e nessun altro, dietro il feretro. L’uomo che non aveva avuti alunc imbarazzo a dichiararsi duscendente di Venere e di Enea, e che aveva basato la sua onnipotenza sulla sua “divinita’”, era rimasto nella piu’ totale solitudine nell’ora della tragedia. In poche ore si era consumato il suo destino e nessuno dei tanti che, grazie a lui, avevano scalato il potere e sarebbero finiti sui libri di storia aveva mostrato il coraggio almeno di comporre il suo corpo e portarlo alla moglie.

Proprio nel Foro si erano condotti subito dopo l’assasinio, i suoi assassini inneggiando ancora al nome di Cicerone, l’uomo che tutti conoscevano a Roma per essere il paladino piu’ òoquace della liberta’ repubblicana, il piu’ ambiguo avversario di Cesare e l’uomo che piu’ di ogni altro sapeva con la sua forza della sua straordiaria eloquenza parlare al cuore di Bruto, piu’ che alla sua testa, e scuoterne l’animo e i pensieri se non tutti i dubbi.

Pluatrco li raffigura con i pugnali in mano, eccitati per la strage effettuata, “non simili a fuggiaschi, ma decisi e animosi”: sembravano un manipolo di esaltati in cerca di pubblico piu’ che di eversori in cerca di asilo.

In effetti alcuni spettatori li trovarono, ma ninete rispetto a quanto si sarebbero aspettati per un’azione che ritenevano grandiosa, nobile e storica. Secondo Appiano solo i repubblicani Gaio Ottavio Balbo e Publio Cornelio Lentulo Spintere si unirono a corteo con pochi altri, gloriandosi di aver partecipato anch’essi alla congiura, senza immaginare che avrebbero pagato a caro prezzo quella vanteria: il ucciso dai secondi triumviri nel 43 a.C., l’altro l’anno successivo.

Eliminato Cesare dalla scena politica romana, che aveva calcato da grande protagonista per oltre un ventennio, i “liberatori” non seppero mantenere saldi i nervi e commisero errori letali per il loro ico dosegno poltico, dopo aver compiuto il primo e piu’ macroscopico prima di compiere l’attentato.

Nell’ingenua convinzione che l’assassinio avrebbe risolto ogni cosa, essi non avevano predisposto un piano per assumere immediatamente il potere e porre Roma di fronte al fatto compiuto. Accecati dall’odio e dal loro manicheismo politico, essi avevano dimenticato la lezione della storia, e cioe’ che non basta abbattere un oppressore per riconquistare la liberta’ perduta. Insomma, non avevano messo in conto che il loro attacco al cuore dello Stato avrebbe seminato una nuova, lunga scia di sangue senza evitare il crollo della Repubblica.

Gli altri errori vennero a catena a partire dall’abbandono di gettare il cadavere nel Tevere, com’era successo ai Gracchi. A detta di Svetonio, Bruto e gli altri cambiarono proposito per paura di Antonio e di Lepido, l’unico uffciale con uomini armati alle porte dell’Urbe.

Ma forse piu’ che il coraggio a loro venne meno la lucidita’ a causa, da un lato dall’esaltazione che li aveva pervasi, dopo avere massacrato l’uomo che aveva ferito a morte la Repubblica facendosi nominare Dittatore a vita e. dall’altro lato, del caos che si era innescato all’interno ed all’esterno del magnifico complesso con il quale Pompeo aveva avviato la monumentalizzazione del campo marzio, costruendo edifici grandiosi su terreni privati.

La fuga della gente comune nel Foro alla vista dei loro pugnali ancora insaguinati aveva fatto il resto. E cosi’, non riuscendo a ragionare con freddezza ne’ a calcolare gli effetti delle loro mosse, essi lasciarono cadere anche l’idea di confiscare i beni del Ditattore e di annullare i suoi atti politici, pensando a mettersi al sicuro. Con il pretesto di dover rendere grazie agli dei nel tempio di Giove Capitolino, si ritirarono sul campidoglio per potersi difendere meglio eventualmente sia dai soldati di Lepido, sia da un attacco dei veterani di Cesare che in grande numero erano venuti in citta’ per salutare il loro antico comandante in partenza alla volta dell’Impero dei Parti.

Testi consultati:

- Monatnelli, I. Storia di Roma. Milano: Rizzoli, 2005;
- Svetonio: De Vita Caesarum. Milano: Mondadori, 20003;
- Zaccaria, C. Storia di Roma antica. Milano: New Copton Collection, 2014.

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
email: prof_biblio_lodesal@yahoo.com