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La damnatio memoriae

Di Alessio Lodes

Il diritto romano prevede la possibilità di cancellare ogni traccia materiale della presenza di una persona non più degna di essere ricordata; o meglio: non più degna di essere ricordata per decisione altrui. Una volta decisa da altrui l’indegnità, sarà buona norma provvedere a distruggere quanto di materiale resta dell’opera dell’indegno. 

Nella Roma antica si regolamenta questa consuetudine, presente da sempre nelle Storie della storia.

Nei nostri tempi, più o meno antichi, è stato tutto un mettere e levare insegne, statue, ritratti, simboli. Con l’illusione, abbattendo un simbolo, di abbattere l’idea che esso evoca. Semmai l’idea si rafforza. Perché per decenni ci sarà la curiosità di chi vorrà andare a vedere quelle cancellature. Vorrà andare a capire quali fossero le parole condannate, il volto di marmo preso a sputi e martellate. E la curiosità alimenterà il ricordo. Stalin, Lenin, Mussolini, Saddam Hussein, Francisco Franco, uomini del Novecento che hanno innalzato statue, distruggendone altre. I successori non sono stati da meno, distruggendo per ricostruire, nell’illusione di eliminare il tempo intermedio appena trascorso. Sarebbe stato meglio non permettere a quei regimi di prevalere, contrastandoli sul nascere. Invece no. Si ripara dopo, a martellate. «Sia santificato il tuo nome»: è nella preghiera più importante del cristianesimo. E spiega indirettamente l’uso della damnatio memoriae, pervenuta fino a noi direttamente dal mondo antico. Nel nome c’è tutto, esso si identifica con la persona, conosciuta (in quel tempo e fino a pochi decenni orsono) quasi solo ed esclusivamente con il nome. Non esisteva il volto, non prevaleva l’immagine: l’uomo era degno di essere ricordato per nome. Le tombe antiche proponevano il nome scolpito a chiare lettere nella pietra, perché non ci si scordasse di quanto aveva realizzato sulla terra quell’uomo, oramai ridotto in resti abbandonati sottoterra. Il nome illustre portava con sé le informazioni necessarie per identificarne la vita e le opere. Al contrario, chi si macchiava di indegnità non aveva più diritto nemmeno a quel ricordo: ecco la damnatio memoriae, la condanna ad aver distrutto tutto e, soprattutto, il nome. Piccole cose del mondo degli uomini: voler cancellare parole, ritratti, simboli quasi per riconquistare una verginità e dimostrare a se stesso di essere stato un combattente di un regime, di aver sempre pensato all’opposto rispetto al pensiero di quella persona, il cui nome ora va dimenticato. Alla fine del mondo romano si corre alla conversione religiosa. 

Il cristianesimo è religione di Stato, per cui fa comodo iscriversi al partito del vincitore, è necessario rinnegare il simbolo antico (le immagini degli dèi di una volta), e abbracciare totalmente questo simbolo nuovo costruito sulla croce. Cosa importa se l’insegna, in quel periodo, rappresenta l’ignominia, perché sulla croce finiscono i derelitti, i farabutti, coloro il cui nome non deve essere né ricordato né (tantomeno) santificato. Non importa. Ora la croce vince, ora la croce trionfa e tutti sono pronti a prendere per sé quel segno inconsapevolmente, per convenienza. All’inizio di quel medioevo la croce si ostenta, si esibisce come ornamento, occupa gli spazi lasciati liberi anche negli oggetti della vita quotidiana. Il segno della croce finisce su bicchieri e stoviglie dell’alto Medioevo. Usati, probabilmente, durante banchetti dei signori, mentre la gente non aveva di che vivere. Oggi e sempre, quando la storia si libera di quel capo di governo o di quel dittatore, l’uomo comune esce per strada. E non importa se, per un certo periodo, sia stato anche sostenitore di quel regime: esce per strada con scalpello e martello e inizia a colpire teste di statue, ritratti, iscrizioni celebrative, ansioso di farsi vedere libero e rivoluzionario. Non si risparmia nessuno. Massenzio, alla fine dell’Impero romano, distrugge le statue di Costantino, non potendo distruggere Costantino, distruttore delle statue di Massimiano padre di Massenzio. Finiranno tanto l’uno, quanto l’altro. Qualche anno fa hanno rimosso (in Spagna, in gran segreto) anche l’ultima statua a cavallo di Francisco Franco, ultimo erede delle dittature del secolo XX, morto da tempo e fuori dalla storia da altrettanto tempo. «Dava fastidio e attorno a quelle zampe si radunavano ancora nostalgici e passatisti»: così è stato detto, per giustificare l’abbattimento del simbolo. Ancora una volta spaventano i simboli. Una statua a cavallo, vecchia, male in arnese, ricordata più dai piccioni che dagli uomini. Per qualcuno, la libertà è ora più tutelata. Che soddisfazione distruggere a pezzi quelle facce arroganti, alzare le nostre spade contro di loro, di tagliarli ferocemente con le nostre accette, come se il sangue e il dolore potessero seguire i nostri colpi.

Le parole descrivono una distruzione di statue e non provengono da un militante del Daesh, né da un fanatico politico o religioso. Scrive così Plinio il Giovane, vissuto tra 61-62 e 113-144. È il nipote altrettanto celebre di Plinio il Vecchio, entrambi estremamente importanti e influenti nella Roma dell’epoca. Plinio il Giovane fa carriera soprattutto al tempo di Traiano, l’imperatore sotto il quale l’Impero romano raggiunge il massimo della sua espansione. Plinio è giovane e vive quando regna Domiziano, l’ultimo imperatormomento storico di passaggio o di crisi. Domiziano è imperatore e, probabilmente, anche imperatore efficace. Si appoggia all’esercito, favorisce i piccoli coltivatori, non si lancia in guerre di conquista o di affermazione del potere di Roma a differenza del fratello Tito, protagonista della distruzione storica di Gerusalemme nel 70. Entra in contrasto con l’aristocrazia e con il senato: ma questo fa parte dello stipendio degli imperatori romani. Negli ultimi anni del suo governo vira verso un potere più presente e repressivo: e anche questo rientra nella busta paga imperiale, non solo per Roma e dintorni. Tra le ragioni, l’insurrezione delle legioni della Germania superior guidata da Lucio Antonio Saturnino. È il 1° gennaio dell’89 e Saturnino si ribella con i suoi fedelissimi e con l’appoggio nascosto del senato. Inizialmente è sostenuto anche da Aulo Bucio Lappio Massimo, governatore della Germania inferior. Poi Lappio Massimo ci ripensa, conferma la fedeltà a Domiziano e muove contro Lucio Antonio. Il 25 gennaio la rivolta è già domata e Lappio Massimo si premurerà di distruggere ogni documento prodotto da Saturnino: sia per nascondere il suo rapporto con gli insorti, sia per tentare di uccidere la memoria assieme ai protagonisti. A questo punto Domiziano deve necessariamente cambiare stile. 

Repressione, stato di polizia e culto della personalità: egli diventerà dominus ac deus, signore e dio, celebrato in statue, iscrizioni, opere d’arte varia, perché il dittatore – amante di arte e letterature – è anch’esso tradizione storica ben consolidata. Domiziano scriverà poesie e Quintiliano, grande retore del momento, scriverà testualmente recensendo l’imperatore: e della dinastia dei Flavi. È un periodo particolarmente complesso della storia di Roma, così come lo è ogni momento storico di passaggio o di crisi. Domiziano è imperatore e, probabilmente, anche imperatore efficace. 

Gli dei hanno ritenuto che fosse troppo poco per lui essere il più grande dei poeti. Cosa vi è di più sublime, di più dotto, di più armoniosamente bello delle sue poesie composte nell’ozio in cui si è confinato nella sua giovinezza, dopo averci fatto dono dell’Impero? Chi potrebbe cantare meglio la guerra di colui che la fece così gloriosamente? A chi dovrebbero mostrarsi più benigni gli dei che presiedono agli studi? I secoli futuri parleranno meglio di me; ora la sua gloria poetica è eclissata dalla fama dei suoi altri talenti.

Anche in questo caso è rispettata la regola millenaria, non scritta, dell’intellettuale con la lingua appiattita sul regime. La storia va avanti ed è sempre simile a se stessa. La possibilità di far cadere il regime, sperimentata una volta anche se fallendo, è uno spiraglio lasciato aperto per altri tentativi più organici. Così è. Altri senatori si accordano con Cocceio Nerva, umbro di Narni, senatore e governatore della Mauritania e riprovano a porre fine alla vita e al governo di Domiziano. Ci riescono nello stile Giulio Cesare: il procuratore Stefano si fa ricevere da Domiziano, lo accoltella, non lo finisce, cosa che fanno gli altri cospiratori al suo seguito. È il 18 settembre del 96. Dopodiché Nerva sarà imperatore. Ma cosa c’entra tutto questo con le parole di Plinio il Giovane? Anche qui c’è il rispetto di regole millenarie non scritte: quando cade un dittatore ci si accanisce con tutto quanto può essere ricondotto alla dittatura dimostrando, ancora una volta, lo stile del correre dopo. 

Testi consultati:

- Bigers, J. , Paciotto C.  Damnatio memoriae: A play. [s.l.]: Wings, 2015;

- Blasi, M. L’incredibile storia degli imperatori romani. Milano: Newton Compton, 2018;

- Capello, B. Dalla damnatio memoriae alla verita’. [s.l.]: Unexpurgated, 2020;

- Di Puolo, M. Personaggi, luoghi, storie in 640 fotografie dall’archivio Metaimago. [s.l.]: Gangermi, 2019;

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
Email: prof_biblio_lodesal@yahoo.com