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Canoni della cittadinanza 

Storicamente si è o si diventa cittadini di uno Stato sulla base del valore che in una data esperienza costituzionale acquista il discendere da cives o il nascere nella civitas. Queste unità di misura dello status civitatis rimandano a tradizioni, culture giuridiche e visioni della comunità politica molto diverse tra loro. Lo ius sanguinis definisce un’appartenenza del cittadino allo Stato fondata sui legami etnici o familiari e configura il popolo quale entità etno-culturale, naturale e pre-politica, che non costruisce ma abita uno spazio politico che risulta assiologicamente prioritario rispetto ai singoli consociati. Lo ius soli, invece, definisce la cittadinanza quale conseguenza del fatto giuridico di essere nati sul territorio di un determinato ordinamento; in questa prospettiva, l’individuo precede la comunità e il popolo si configura ‘artificialmente’, su un piano etico-politico. Sangue e suolo rimandano, dunque, a diversi “discorsi della cittadinanza”: a differenti rappresentazioni del soggetto e dei suoi rapporti con l’ordine politico e sociale in cui si trova inserito, evidenziando le connessioni che legano la storia dell’idea di cittadinanza alla storia costituzionale e alla stessa storia del diritto. Approssimativamente, può dirsi che il sangue rinvierebbe a una tradizione più ‘monarchico/liberale’ ed escludente, mentre il suolo a una tradizione più ‘repubblicano/democratica’ e inclusiva. Queste due visioni della cittadinanza, peraltro, s’intrecciano all’evoluzione delle discipline della materia dal punto di vista delle fonti del diritto. Le rivoluzioni di fine Settecento, al di qua e al di là delle Alpi, costituzionalizzarono le regole della cittadinanza, mentre la fine di quella stagione consegnerà la regolazione della materia ai codici civili, che disciplineranno le cittadinanze nazionali fino alla crisi dello Stato liberale, quando le regole dell’appartenenza verranno affidate ad appositi testi legislativi. La stessa attribuzione al sangue e al suolo di una matrice culturale più ‘liberale’ o più ‘democratica’ si spiega anche alla luce di quel passaggio della cittadinanza dalle costituzioni ai codici civili che si compie agli albori dello Stato liberale, nelle prime tendenzialmente prevalendo il criterio territoriale e nei secondi invece quello del sangue. Ad uno sguardo più dettagliato, tuttavia, questa polarità tra sangue e suolo, come la stessa distinzione tra una cittadinanza appartenenza e una cittadinanza partecipazione, si riduce sensibilmente. Da una parte, queste coppie oppositive possono ricondursi a una lettura unitaria, che della cittadinanza evidenzia la funzione di ‘forma del disciplinamento’, riducendo la dualità tra sangue e suolo in quanto matrici culturali della cittadinanza anche nella prospettiva di teoria costituzionale; dall’altra, l’analisi delle discipline adottate in vari momenti dai differenti paesi conferma un depotenziamento della polarizzazione, queste discipline risolvendosi piuttosto in combinazioni dei due criteri, con la prevalenza dell’uno o dell’altro. Detto altrimenti, se il discorso della cittadinanza, nel suo rifarsi al suolo o al sangue, è indubbiamente chiamato a definire il senso politico di una comunità, la misura dell’appartenenza, l’idea di popolo e i rapporti tra singoli, comunità e ordine, è anche vero che le effettive discipline della materia non si limitano a fotografare e a normare una o l’altra idea di nazione, ma sono chiamate a risolvere questioni più specifiche, dettate dai tempi e dai contesti. Questa ‘sdrammatizzazione’ del sangue e del suolo non intende sminuire la valenza di tali criteri ai fini di una ricostruzione delle principali coordinate concettuali della cittadinanza nelle diverse esperienze, quanto piuttosto evidenziare la natura aperta e dinamica della cittadinanza, come concetto e come istituto. Sangue e suolo darebbero luogo più che a ‘modelli’ a ‘canoni’ della cittadinanza”, i quali se, per un verso rimandano differenti matrici culturali, per altro verso evidenziano nelle loro traduzioni normative fisionomie meno definite, più combinatorie e cangianti, capaci di ridefinirsi al contatto con il mutamento delle esperienze, al fine di rispondere a esigenze più pragmatiche e contingenti. Tra queste esigenze, le dinamiche migratorie assumeranno dalla fine dell’Ottocento un rilievo indubbiamente centrale, ma le regole della cittadinanza non possono ridursi a dispositivi di regolazione dei movimenti migratori, dal momento che tali discipline opereranno nel tempo quali regolatori anche di altre e non meno rilevanti questioni. La storia dell’idea di cittadinanza e delle sue traduzioni giuridiche evidenzia infatti come questa, per la portata universalizzante, inclusiva e partecipante che ne connota in particolare le declinazioni più democratiche, venga chiamata a includere ed escludere su molteplici faglie che nel tempo si sono aperte nei rapporti tra individui e ordinamenti, e lungo le quali si svolgono conflitti anche aspri, lotte per i diritti associati a quello status. Il discorso della cittadinanza, in altri termini, opera e non può non operare sul piano cittadino/straniero, ma esso storicamente è stato oggetto di contesa, anche sui terreni della schiavitù, del genere, della classe, del credo religioso e così via, acquisendo in questi processi valenze che ne arricchiscono la portata propriamente ‘costituzionale’. Nelle costituzioni della Francia rivoluzionaria e del giacobinismo italiano le discipline della cittadinanza, basate su uno ius soli variamente integrato da manifestazioni di volontà e requisiti patrimoniali, più che a distinguere tra cittadini e stranieri, miravano ad esprimere un netto ripudio del precedente ordine cettuale. Analogamente, il passaggio dal criterio territoriale a quello parentale caratterizzante la codificazione napoleonica della cittadinanza opera una rottura con la tradizione feudale, nella quale lo ius soli si ricollegava al vincolo che legava ad una signoria tanto un territorio quanto i sudditi che vi nascevano, e al contempo si lega a una civilizzazione della cittadinanza funzionale al rafforzamento dell’egemonia borghese, configurandosi l’appartenenza quale chiave di accesso e garanzia per i più fondamentali diritti, libertà e proprietà, sottratti in tal modo alle incertezze della politica ed affidati alla certezza del diritto del codice, all’interno di un rapporto tra individuo e ordine concepito in termini di eguaglianza formale. Sessant’anni dopo, negli Stati Uniti, l’approvazione del XIV emendamento, che esprime la disciplina più prossima al principio di ius soli, è spinta, più che dal mito della nation of immigrants, che si svilupperà solo successivamente, dalla necessità di chiudere i conti con la guerra civile e di portare a compimento l’abolizione della schiavitù, superando l’impianto discriminatorio di molte discipline della cittadinanza degli Stati del sud e neutralizzando gli orientamenti espressi dalla Corte suprema nella infausta Dred Scott V. Sanford del 1857.

Anche nell’Ottocento italiano il tema della cittadinanza ha a che fare più con il compimento del processo di unificazione nazionale che con l’individuazione dello straniero, e questa tematizzazione trova conferma in contesti caratterizzati da immagini della cittadinanza molto distanti tra loro, come la costituzione della Repubblica romana del 1849 e il codice civile del 1865. La Costituzione romana al suo primo articolo afferma un’idea territoriale di cittadinanza: democratica, inclusiva e militante, con forti ascendenze giacobine e nel repubblicanesimo classico e comunale, ma al contempo, come rivelano il ruolo che in quella cittadinanza svolgono i doveri e le previsioni in tema di proprietà, sensibile alle istanze di integrazione sociale che, emerse in quel biennio rivoluzionario, troveranno più compiuta espressione nel costituzionalismo democratico-sociale del primo Novecento. In materia di acquisto della cittadinanza, l’art. 1 della costituzione distingueva tra 'altri italiani’ e ‘stranieri’, richiedendo ai secondi un domicilio decennale e ai primi semestrale, termine quest’ultimo che non si limita a riflettere l’ampia partecipazione di patrioti degli altri Stati italiani alle vicende e alla difesa della Repubblica romana, ma che esprime in qualche modo anche la percezione da parte dei costituenti capitolini delle possibilità che quella breve esperienza apriva nella costruzione di un orizzonte nazionale unitario. Il codice albertino del 1865, come già il codice parmense del 1820 e quello subalpino del 1837, individua in una cittadinanza parentale e patriarcale lo strumento più adeguato a mantenere culturalmente omogenea la comunità ed a garantire la sua lealtà al sovrano, organicisticamente muovendo dall’originaria e necessaria appartenenza dell’individuo al gruppo sociale e dalla costruzione delle formazioni sociali fondamentali (Stato e famiglia) attorno a vincoli gerarchici affini: al comune dovere di obbedire al padre e di onorarlo - lo stesso Statuto, com’è noto, era stato concesso da Carlo Alberto «Con lealtà di Re e con affetto di Padre». Al contempo, il codice del 1865, come già il Code Napoléon, eclissa la dimensione politico-costituzionale dell’appartenenza operando una civilizzazione della cittadinanza che gioca le sue dinamiche di inclusione/esclusione più sul terreno del censo che su quello della nazionalità. Depongono in tal senso, tra l’altro, l’eliminazione della clausola di reciprocità (art. 3), per favorire l’ingresso di capitali stranieri a sostegno dell’industrializzazione del neo-Stato unitario, e la distinzione tra cittadini attivi e passivi operata dalla legge elettorale del 1848. Peraltro, che quella cittadinanza rispondesse anche a esigenze derivanti dal completamento dell’unificazione è confermato ancora una volta dal dibattito che accompagnò l’approvazione del codice e dalla distinzione che questo operava tra una grande e una piccola naturalità (art. 10), riprendendo una duplicità di trattamento già prevista dalla ricordata legge elettorale (art. 1, comma 1); si consideri inoltre l’ampia discrezionalità di cui godeva l’Esecutivo in materia di naturalizzazione, che agevolò nella prassi l’acquisto della cittadinanza da parte di stranieri benestanti, oltre che politicamente e confessionalmente affidabili.

Il quadro muta negli anni tra Otto e Novecento, quando le migrazioni assumono un carattere non più individuale ma di massa e in molti paesi europei le discipline della cittadinanza abbandonano i codici per trovare posto in normative ad hoc in cui l’opzione tra ius sanguinis e ius soli tende a ricondursi appunto alla natura emigratoria o immigratoria del paese. La disciplina italiana del 1865 appare inadeguata dinanzi alle imponenti emigrazioni che si sviluppano già a ridosso dell’Unificazione, rivelandosi fonte di complicazioni per gli emigranti e facile ad entrare in conflitto con le normative dei Paesi di immigrazione. Una sorta di timore reverenziale a intervenire sul Codice, ‘costituzione materiale’ del tempo, ritardò a lungo. Il quadro muta negli anni tra Otto e Novecento, quando le migrazioni assumono un carattere non più individuale ma di massa e in molti paesi europei le discipline della cittadinanza abbandonano i codici per trovare posto in normative ad hoc in cui l’opzione tra ius sanguinis e ius soli tende a ricondursi appunto alla natura emigratoria o immigratoria del paese. La disciplina italiana del 1865 appare inadeguata dinanzi alle imponenti emigrazioni che si sviluppano già a ridosso dell’Unificazione, rivelandosi fonte di complicazioni per gli emigranti e facile ad entrare in conflitto con le normative dei Paesi di immigrazione. Una sorta di timore reverenziale a intervenire sul Codice, ‘costituzione materiale’ del tempo, ritardò a lungo.

Se i nessi tra cittadinanza e colonizzazione sono particolarmente evidenti nei casi francese e britannico – come testimoniano le facilitazioni nell’accesso alla cittadinanza di cui per lungo tempo hanno goduto gli individui provenienti dall’Outre-mer o dal British Empire – anche l’esperienza italiana rivela diverse ragioni d’interesse. È il caso ad esempio della parabola delle discipline in materia di unioni miste e condizione giuridica dei cd. ‘meticci’. Se le discipline liberali della materia ribadirono la natura patriarcale della cittadinanza italiana e al contempo l’intreccio di discriminazioni razziali e di genere che si sviluppano un po’ ovunque negli spazi coloniali, la criminalizzazione delle unioni miste e le chiusure della cittadinanza ai loro discendenti che accompagnarono la proclamazione dell’impero istituzionalizzarono quel razzismo che accompagna ogni impresa coloniale, evidenziando la prospettiva segregazionista del colonialismo fascista e anticipando riflessioni e pratiche che di lì a poco si ripresenteranno in Europa nelle persecuzioni razziali nazifasciste e che con il razzismo coloniale condivideranno dispositivi costruiti a partire dall’ esclusione dalla piena cittadinanza. Nel caso italiano, inoltre, tanto le discipline della cittadinanza quanto la colonizzazione vennero strumentalizzate a fini d’irreggimentazione dell’emigrazione. Fin dalle origini, infatti, la colonizzazione italiana venne legittimata in quanto conquista di nuove terre verso le quali indirizzare la ‘grande proletaria’. La colonizzazione liberale connetterà tali argomenti demografico-migratori alle retoriche civilizzatrici tipiche del colonialismo francese e britannico, sviluppando il topos, duro a morire anche nell’Italia repubblicana, degli ‘italiani brava gente’. Anche la colonizzazione fascista sarà una colonizzazione di popolamento, ma muta il tono delle retoriche demograficomigratorie; nel nazionalismo dello Stato di potenza, le ragioni demografiche non costituiranno un problema, ma un atout: una dimostrazione di vitalità, di energia da estroflettere nella sfera internazionale.

Nonostante il mutamento di paradigma rispetto al passato che la costituzione repubblicana opera nei rapporti tra individuo e ordine, la Carta del 1948 contiene scarsi richiami alla cittadinanza, ma si caratterizza per un approccio fortemente inclusivo e non può dirsi indifferente rispetto ai vari canoni dell’appartenenza, i riferimenti alla cittadinanza operando quali fattori d’integrazione civile e di legittimazione del nuovo ordinamento democratico; è significativo, da questo punto di vista, che il solo richiamo alla cittadinanza-appartenenza sia quello, in negativo, dell’art. 22. Peraltro, i costituenti erano ben consapevoli che l’Italia era, e sarà ancora per un quarto di secolo, terra d’emigrazione, e questo aiuta a comprendere da una parte il rilievo che il quarto comma dell’art. 35 attribuisce alla libertà di emigrare e alla tutela del lavoro italiano all’estero e, dall’altra, la perdurante vigenza, al netto di qualche puntuale intervento, della disciplina del 1912. Il quadro migratorio italiano inizia a mutare alla metà degli anni Settanta, quando per la prima volta nella storia patria gli ingressi superano le partenze. Sarà tuttavia all’inizio degli anni Novanta che l’Italia si scopre terminale di arrivo delle migrazioni che si sviluppano con la fine del secolo breve ed è in questo passaggio che verrà riformata la disciplina della cittadinanza ad opera della legge n. 91 del 1992. La legge n. 91, se elimina le ultime disparità di genere in materia di cittadinanza e adegua la normativa alla neo-istituita cittadinanza europea, non rivela la stessa sensibilità verso i mutamenti intervenuti nelle dinamiche migratorie, evidenziando in tal modo la valenza escludente che viene a giocare il criterio del sangue nel mutato contesto. La legge del 1992 conferma nella sostanza l’impianto della normativa del 1912 e il suo orientamento volto a conservare la cittadinanza in capo agli emigrati e ai loro discendenti – rafforzando il criterio dello ius sanguinis (art. 1), ammettendo esplicitamente ipotesi di doppia cittadinanza (art. 11), favorendo l’accesso alla cittadinanza per gli stranieri di origine italiana (art. 4, comma 1, art. 9, comma 1, lett. a, e art. 17) mentre risulta più restrittiva della disciplina previgente nell’applicazione dello ius soli e dello ius domicilii nel caso di immigrati e loro discendenti. Per i figli di stranieri, la nascita nel territorio, infatti, rileva ai fini della cittadinanza solo in combinazione con una manifestazione di volontà in tal senso e con una residenza legale ininterrotta fino alla maggiore età (art. 4, comma 2). La legge n. 91, inoltre, se ha ridotto da cinque a quattro anni i termini della naturalizzazione per residenza in caso di cittadini comunitari, ha invece portato tale termine a dieci anni per i cittadini extracomunitari (art. 9, comma 1, lett. d e f), confermando la natura concessoria della naturalizzazione, che dipende, oltre che dalla regolarità della residenza, da una serie di indicatori di integrazione socio-economica per la cui valutazione l’amministrazione gode di un alto tasso di discrezionalità. La disciplina del 1992, invece, sia rispetto a quella previgente sia rispetto alle altre normative europee, si è rivelata per lungo tempo assai generosa nell’accesso alla cittadinanza iure connubii, in tal modo peraltro favorendo matrimoni ‘di comodo’ e operando una rilevante discriminazione tra famiglie ‘miste’ e famiglie extracomunitarie, discriminazione che è andata accentuandosi nel tempo con il progressivo restringimento delle possibilità di ricongiungimento familiare nel succedersi delle normative sull’immigrazione. 

Testi consultati:

-    La cittadinanza e i diritti, in I diritti costituzionali, P. RIDOLA, R. NANIA (a cura di), Torino, 2006;
-    G. BASCHERINI, Immigrazione e diritti fondamentali. L’esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee, Napoli, 2002;
-    G. BASCHERINI, La colonizzazione e il diritto costituzionale. Il contributo dell’esperienza coloniale alla costruzione del diritto pubblico italiano, Napoli, 2012;
-    G. BASCHERINI, “La costituzione della repubblica romana come modello”, in Diritto e società 2015;
-    C. BERSANI, “Forme di appartenenza e diritto di cittadinanza nell’Italia contemporanea”, in Le Carte e la Storia 2011;
-    U. BORSI, Corso di diritto coloniale, Parte generale, Padova, 1937;
-    M. LUCIANI, “La cittadinanza nella Costituzione della Repubblica romana del 1849”, in Index 44. Roma: 2016;
-    G. Repetto. Il canone dell’incidentalità costituzionale. Trasformazioni e continuità nel giudizio sulle leggi. Napoli: 2006

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
Email: prof_biblio_lodesal@yahoo.com