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Genetisti italiani ricostruiscono la storia del primo popolamento umano del Nuovo Mondo

L’America è stato l'ultimo continente ad essere colonizzato dall’Uomo e attraverso l’analisi molecolare di vari sistemi genetici è da tempo che si cerca di definire i tempi di arrivo nel Nuovo Mondo degli antenati degli Indiani d’America e di identificarne le antiche rotte di dispersione. Nuovi dati sull’argomento sono stati pubblicati il 12 marzo sulla rivista americana PLoS ONE da un gruppo di ricerca internazionale guidato da due genetisti italiani: il Prof. Antonio Torroni (Dip. Genetica e Microbiologia, Università di Pavia) ed il Dott. Alessandro Achilli (Dip. Biologia Cellulare e Ambientale, Università di Perugia). In questo studio, basato sull’analisi molecolare di quella parte del genoma umano che è localizzata nei mitocondri (i centri energetici delle nostre cellule), sono stati esaminati in dettaglio oltre 200 genomi mitocondriali appartenenti a Nativi Americani. L’insieme dei dati indicherebbe che la quasi totalità degli antenati degli Indiani d’America arrivò con un unico evento di migrazione e dispersione dall’Asia, attraverso la Beringia, circa 20.000 anni fa, ossia appena dopo l’ultimo picco glaciale.

Quando Cristoforo Colombo “scoprì” l'America nel 1492, i Nativi Americani erano già presenti su tutto il territorio del doppio continente dall’estremo Nord (Stretto di Bering) all’estremo Sud (Terra del Fuoco). Queste popolazioni aborigene rappresentano un caso unico negli studi di evoluzione umana; infatti, i loro antenati colonizzarono in poco tempo un’enorme area geografica mai occupata in precedenza e, rimanendo apparentemente isolati dal Vecchio Mondo, svilupparono una grande diversità biologica e culturale divenendo oggetto di studio da parte di genetisti, archeologi e linguisti. Nonostante ci sia ormai unanime consenso sul fatto che gli Indiani d’America siano d’origine asiatica, i tempi di colonizzazione del continente americano e il numero di eventi migratori dall’Asia sono ancora argomento di acceso dibattito.

Per quanto riguarda il DNA mitocondriale (mtDNA), fin dai primi anni novanta, divenne evidente che i genomi mitocondriali degli Indiani d’America erano definiti da uno o dall’altro di solo quattro gruppi di mutazioni che formavano quattro linee materne ben definite (aplogruppi). Queste erano state inizialmente nominate utilizzando le prime quattro lettere dell’alfabeto, ossia A, B, C e D, ma sono attualmente chiamate A2, B2, C1 e D1. Ebbene, più del 95% degli mtDNA degli attuali nativi Americani appartengono ad una di queste quattro linee, che a ragion veduta sono definite “pan-Americane” essendo diffuse attraverso l’intero continente. Più recentemente, altre cinque linee materne indigene sono state identificate (X2a, D2, D3, C4c e D4h3), ma sono molto meno comuni e hanno una distribuzione etnico/geografica molto più limitata. Rimane però il fatto che in totale sono solo nove le linee mitocondriali evidenziate negli attuali Nativi Americani.

“In questo studio, attraverso l’analisi molecolare dell’intera sequenza di più di 200 genomi mitocondriali degli Indiani d’America, si ottiene per la prima volta una stima accurata del tempo di arrivo ed espansione nel Nuovo Mondo dei quattro rami pan-Americani” afferma il Prof. Torroni, che tra l’altro è stato il primo ad identificare e nominare, circa 15 anni fa, questi quattro aplogruppi. Questi risultati non avvalorano affatto l’ipotesi secondo cui la cultura “Clovis”, che prende il nome da punte di lancia e da altri manufatti ritrovati vicino a Clovis nel New Messico e che prosperava in Nord America circa 11.000 anni fa, fosse la prima cultura umana ad essersi originata nel Nuovo Mondo poco dopo l’arrivo dei primi colonizzatori umani. I nuovi dati ottenuti sarebbe invece in accordo con le indiscusse datazioni (mediante radiocarbonio) dei più antichi reperti Paleoindiani trovati in Sud America. Infatti, tutti e quattro gli aplogruppi pan-Americani – A2, B2, C1 e D1 – presentano età molto simili (comprese tra i 18 e i 24 mila anni) con un valore medio di circa 20,000 anni; questo indicherebbe che la gran parte delle popolazioni di Nativi Americani hanno un’origine genetica comune e le linee pan-Americane sarebbero state portate da una sola popolazione fondatrice attraverso un unico evento migratorio avvenuto poco dopo l’ultimo picco glaciale. Per quanto riguarda la rotta, sicuramente quella costiera (Oceano Pacifico), sembrerebbe essere la più probabile tenendo conto che le vie d’accesso più interne dalla Beringia verso il Nord America erano a quel tempo completamente bloccate dai ghiacciai.

Possiamo quindi mettere la parola fine sulla storia del popolamento del Nuovo Mondo? Certamente no, in realtà questi dati definiscono una serie di tasselli molto importanti in un puzzle estremamente complesso e ci spingono a ulteriori studi del genoma mitocondriale delle popolazioni indigene d’America. Ad esempio, cosa sappiamo degli altri cinque aplogruppi meno comuni? “In realtà ancora poco” sottolinea il Dott. Achilli “tuttavia i nostri dati sembrerebbero indicare che alcuni dei rami mitocondriali più rari – quelli ristretti a specifiche aree geografiche e/o a particolari gruppi di popolazioni – sarebbero il prodotto di ulteriori eventi migratori a partire dal continente asiatico o dalla Beringia”.

Certamente questo lavoro costituirà un riferimento per tutte le future ricerche sui Nativi Americani, compresi molti studi su patologie. Infatti, un tale approccio filogenetico applicato a dati genomici è essenziale non solo per ricostruire la storia dei nativi Americani, ma anche per la realizzazione di solidi ed attendibili studi di associazione tra aplogruppi mitocondriali e patologie complesse.