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Il diverso nella Commedia di Dante

Dante esprime nella Commedia l’esigenza di un confronto della cultura cristiana con le due principali alterità rispetto a essa indicate già da Anselmo d’Aosta nella sua opera, gli insipientes, cioè i non credenti, a proposito dei quali nel X canto dell’‘Inferno’ sottolinea, attraverso il dialogo con Farinata e Cavalcante, la differenza tra la loro “visione” meramente mondana della vita e la missione soprannaturale del Poeta, e gli infideles, cioè coloro che professano un’altra fede o che l’hanno fatto nel passato, tra i quali i pagani e gli ebrei. Riguardo a questi ultimi  già nel  IV canto dell’Inferno Dante affronta il delicato tema della continuità tra la cultura cristiana dei “moderni” e quella degli antichi. 

In particolare nella tradizione ebraica è evidentemente riconosciuta tutta la verità dei misteri, incentrata sulla trinità dell’unico Dio, e questo è sufficiente a determinarne una rivalutazione di essa, per cui nella prospettiva dantesca la colpa storica dell’ebraismo va individuata non nel deicidio ma nell’incapacità di cogliere il nucleo veritativo della sua stessa cultura. Quanto ai pagani, traspare il dubbio del Poeta sulla giustizia sostanziale dell’ordine universale nel vedere le anime più nobili di esse relegati ai margini del mondo spirituale, senza una vera pena da scontare ma privi della beatitudine che avrebbero meritato se solo avessero conosciuto il Cristo.

Il giudizio di Dante su Maometto e sull’islam, basato sugli stessi criteri che orientano l’atteggiamento del Poeta nei confronti degli antichi, non può non essere diverso e più severo di quello formulato su coloro che sono vissuti prima del Cristo, e quindi non hanno potuto avere contezza del vero; tuttavia esso è accompagnato dal riconoscimento del contributo della cultura e della storia politica degli arabi alla formazione degli aspetti migliori delle pratiche teoriche dell’Occidente cristiano: la riflessione filosofico-teologica come mediazione tra scienza e pensiero religioso e l’idea di monarchia teocratica, espressione diretta della volontà di Dio e nel contempo indipendente dal potere spirituale del ceto ecclesiastico. 

Dante nella Commedia, attraverso i dialoghi che immagina di intrattenere con chi è diverso sul piano delle convinzioni e delle scelte pratiche, cioè con chi rappresenta l’alterità culturale rispetto al mondo cristiano-cattolico, di cui è partecipe e interprete, esprime l’esigenza di un confronto costruttivo con chi non crede o ha un’altra fede e la ricerca di un ‘terreno’ comune su cui trovare le condizioni per un tale incontro, anche se i dialoghi con chi è ‘percepito’ lontano dalla vera fede non hanno talvolta un esplicito contenuto culturale, e manifestano invece una funzione narrativa e un carattere meramente descrittivo di una condizione, di uno stato d’animo o di una preoccupazione, soprattutto nei casi in cui il confronto avviene con personaggi che dal punto di vista dell’Alighieri si sono macchiati di colpe particolarmente gravi, inquadrate come tali in quello che va riconosciuto come un progetto profetico ed escatologico, oltre che poetico e politico.

E tuttavia, attraverso l’accostamento di tali dialoghi alle, e la loro integrazione da parte delle, altre opere dantesche della maturità, dal contenuto più esplicitamente e direttamente filosofico, ricaviamo l’impressione che essi in ogni caso costituiscono dei ‘rimandi’ utili a fare emergere e a focalizzare l’esigenza dell’autore della Commedia di intrattenere con chi è partecipe di una civiltà manifesta una mentalità diverse, anche radicalmente, un confronto culturale. In questo senso l’atteggiamento dell’Alighieri riecheggia le tendenze razionalizzanti e teologico-razionali attraverso cui nel medioevo latino si costruisce, insieme a, e nel contesto di, un pensiero squisitamente filosofico, il paradigma dialogico, che, fondato sulla dialettica, conduce alla quaestio scolastica, caratteristica dell’alta cultura dell’età di Dante. Fa certamente parte di questo retroterra culturale il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta, collocato tra gli esponenti del cristianesimo filosofico, gli ‘spiriti sapienti’, nel IV cielo del Paradiso.

Da questo punto di vista risulta particolarmente significativo il brano del dialogo dedicato alla formulazione di una spiegazione razionale dell’incarnazione del Verbo di Dio in cui l’Aostano mette in bocca al confratello Bosone, che immagina suo interlocutore, un lucido ed emblematico elogio della ragione, non solo come strumento esclusivo della teoresi ma anche, in quanto funzione comune a tutti gli uomini, come organo che costituisce e riconosce l’universale natura dell’uomo (animale razionale in quanto creato ‘a immagine e somiglianza’ di Dio) e lo rende animale sociale, capace di relazionarsi e di comunicare con tutti i suoi simili. Essi appartengono a qualunque estrazione culturale, al fine di trovare un punto di equilibrio tra le diverse culture, nella condivisione dei capisaldi di tutte le confessioni. Infatti Bosone, nel III capitolo del primo libro del Cur Deus homo, chiede retoricamente ad Anselmo di poter usare il linguaggio degli infedeli [patere igitur ut verbis utar infidelium], in quanto è giusto, nell’indagare la razionalità della fede, prendere in considerazione anche le posizioni di coloro che sono disposti ad accogliere la fede solo per via di ragione.  

Peraltro, se gli infedeli percorrono questa strada perché non hanno la fede, mentre i fedeli la percorrono perché credono, gli uni e gli altri cercano la stessa cosa, cioè la verità che soggiace alla ratio fidei. È chiaro che da Anselmo in poi la figura dell’infidelis che si affida alla ragione e la considera strumento privilegiato attraverso cui comprendere ciò che non è immediatamente presente agli organi dell’intuizione sensibile, anzi è da essi irrimediabilmente lontano corrisponde all’arabo islamico e colto, che più del latino cristiano di pari cultura è ‘percepito’ come maestro e cultore dei saperi razionali. E riscontriamo questa ‘percezione’ anche nell’opera matura di Dante e segnatamente nella Commedia, dove troviamo il Saladino, Avicenna e Averroè tra gli ‘spiriti magni’ del Limbo. In tal modo il Poeta riconosce la valenza morale e dottrinale delle azioni e delle idee riferibili agli esponenti più importanti del mondo islamico, e soprattutto di Averroè, ‘che ‘l gran commento feo’, cioè che attraverso i commenti ad Aristotele (che vengono distinti in brevi, medi e grandi, più estesi e complessi) enuclea dall’opera di quest’ultimo il modello teorico in grado di fungere da ‘terreno’ di verifica di universalità e razionalità dei procedimenti e delle idee.

In parziale controtendenza rispetto a questa chiave interpretativa, va rilevato che il Concilio Lateranense del 1215 istituisce un’ortodossia cristiano-cattolica e gli strumenti atti a difenderne l’integrità, riducendo al minimo l’arbitrarietà e l’unilateralità di censure e condanne, ma tende a costituire un ‘cerchio magico’, per così dire, entro cui chiudere la cultura dell’Occidente mediolatino, di irrigidirla secondo un modello identitario e atemporale, impedendo a essa contaminazioni con ciò che dall’esterno possa alterarla e cambiamenti riconducibili ai processi di ‘modernizzazione’ in atto al suo interno. In ultima analisi possiamo asserire che  Dante è nel contempo interprete di tale irrigidimento, in qualche modo ‘figlio’ della cosiddetta ‘riforma ecclesiastica’ dei secoli precedenti e dell’aspirazione al rinnovamento morale e al recupero dei valori spirituali a essa connessi (e peraltro speculare rispetto a quello che negli stessi anni si verifica nel mondo islamico) e testimone della presenza nel ‘tessuto’ culturale.

Testi consultati:

- B. NARDI, La tragedia di Ulisse, «Studi Danteschi» XX (1937), pp. 5-15, rist. in Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari, Laterza, 1949;
- B. NARDI, Il concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», LXXXVIII (1921), pp. 1-52, rist. in Studi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 19672 , pp. 215- 75;
- DANTE ALIGHIERI, Convivio, a cura di G. Fioravanti, canzoni a cura di C. Giunta [C], vol. II dell’ed. delle Opere diretta da M. Santagata, Milano, Mondadori, 2014, III, XIV 5, p. 488;
- E. CERULLI, Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della “Divina Commedia”, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1970, pp. 23-247;
- F. FERRARI, La nascita del platonismo, in “Princeps philosophorum”. Platone nell’Occidente tardo-antico, medievale e umanistico, Atti del I Convegno di Studi del Dottorato in “Filosofia, scienze e cultura dell’età tardoantica, medievale e umanistica” (FiTMU) dell’Università degli Studi di Salerno (Campus di Fisciano [SA], 12- 13 luglio 2010), a cura di M. Borriello, A.M. Vitale, Roma, Città Nuova, 2016, pp. 13-30;
- MIGUEL ASÍN PALACIOS, Dante e l’Islam. L’escatologia islamica nella “Divina Commedia”. Storia e critica di una polemica, Milano, Luni Editrice, 2014;
- R. IMBACH, Dante, la philosophie et les laïcs. Initiations à la philosophie médiévale, Fribourg, Éditionns Universitaires, 1996, trad. it. Dante, la filosofia e i laici, Genova, Marietti, 2003; R. IMBACH, C. KÖNIGPRALONG, Le défi laïque, Paris, Vrin, 2013, pp. 11-164, trad. it. La sfida laica. Per una nuova storia della filosofia medievale, Roma, Carocci, 2016, pp. 23-114.

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
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