UIL

Tempo di noia, tempo di lettura

Di Prof. Alessio Lodes

Sant’Agostino diceva di sapere cos’era il tempo senza riuscire però a trovare le parole per definirlo. Lo stesso si potrebbe dire della noia. Il parallelismo non è certo casuale. Tempo e noia sono fenomeni tra loro strettamente connessi, in quanto quest’ultima è provocata dalla percezione di una determinata “qualità” del tempo stesso, ovvero la sua spietata infinitezza. Nonostante la noia, sotto diversi nomi, sia presente sulla terra da quando esiste un uomo pronto ad annoiarsi, essa si è manifestata come un tratto caratteristico dell’uomo moderno, riconosciuta come esperienza sempre più diffusa soprattutto dopo che la filosofia esistenzialista ebbe a cimentarsi nel disegno particolarmente arduo di trovarle una collocazione all’interno della vita umana. D’altra parte, con buona probabilità, più che dalla meditazione sulle dense pagine kierkegaardiane di Enten Eller o su quelle heideggeriane di Essere e tempo, molti lettori avranno riconosciuto descritto il proprio stato d’animo di annoiati nelle grandi figure della letteratura romantica: Anna Karenina, Emma Bovary, Werther; poi in svariati classici del Novecento firmati da Moravia, Pavese, Beckett, Camus, Hemingway, fino a giungere sulle sponde del millennio appena iniziato, ove la schiera degli scrittori che traggono la loro ispirazione abbeverandosi alla fonte della noia è cresciuta a tal punto da rassomigliare a una piccola folla. Desta interesse il fatto che molti di costoro – i quali spesso più che descrivere la noia riescono a provocarla nel lettore – vengano definiti dalla critica come postmoderni, nonostante trattino un tema che, invece, è caratteristico e specifico della modernità. Forse varrebbe la pena di rileggere Giddens, il quale affermando che “non abbiamo superato la modernità; al contrario, siamo nel mezzo di una fase di radicalizzazione della modernità”, ci sollecita a non prestare attenzione ai punti di rottura con il passato, ma soprattutto alla continuità dei legami che ci imbrigliano al secolo trascorso. La noia è senz’altro uno di questi legami: non abbiamo affatto risolto il problema, anzi, viviamo in un’epoca segnata da squarci sempre più frequenti di infinito – del tempo infinito – nelle anime di noi mortali, abituati a percorrere le nostre giornate secondo i ritmi che lasciamo ci dettino orologi e agende. I nostri giorni e le nostre notti sono minacciati dal rischio di un’irruzione devastante della noia: basta abbassare impercettibilmente la guardia e ZAC! La noia colpisce. Può colpire sempre, ma preferisce colpire nel tempo libero, quando ad essa non è possibile contrapporre alcun obbligo di impegno. Consideriamo appunto l’ambivalenza ozio/noia. Entrambe sono attività strettamente connesse alla possibilità di avere del tempo a disposizione: se il tempo libero è produttivo abbiamo l’otium, se è improduttivo abbiamo la noia.

Ora, a parte il fatto che – come noto – ci si può annoiare anche lavorando, è poi vero che abbiamo più tempo libero da gestire a nostro piacimento? Talora ci conquistiamo giornate lavorative di dodici ore, un po’ perché troviamo nel lavoro la realizzazione di noi stessi, un po’ perché – così facendo – ci procuriamo forse un antidoto contro il rischio di avere troppo tempo per pensare. Allora il problema non è lavoro o non lavoro, ma il significato che diamo al tempo. Diciamo però che mentre lavoriamo, anche se il lavoro è noioso, un obbligo ci impone di portare a termine ciò che stiamo facendo, di raggiungere determinati obiettivi. Non c’è quell’incombenza tremenda di decidere come organizzare il tempo, a che scopo impiegarlo e in che modo perseguire questo scopo che è la vera radice della noia, di quella profonda. Si potrebbe parlare di differenza tra noia situazionale e noia esistenziale: solo quest’ultima è propriamente legata al tempo libero in quanto: la noia presuppone un momento di riflessione su se stessi, di contemplazione della propria posizione nel mondo, e questo richiede tempo, un bene di cui, all’epoca di Kierkegaard, il popolino scarseggiava. Durante il lavoro la strada è tracciata, durante il tempo libero devo financo decidere se mettermi in strada oppure no. E qualcuno, purtroppo non parte; siamo di fronte alla noia che diventa patologia: la depressione. La disponibilità di tempo è dunque un fattore essenziale per comprendere il dilagare della noia nel mondo contemporaneo. Nel passato solo i benestanti potevano permettersi di avere del tempo a disposizione e dunque di rischiare di cadere dall’ozio alla noia: emblematici, da questo punto di vista, sono i casi di Montaigne o Leopardi o Schopenauer che scrive: “Se il bisogno è il flagello del popolo, la noia è il supplizio delle classi superiori. Nella borghesia la noia è rappresentata dalla domenica, il bisogno dagli altri sei giorni della settimana”. Oggi invece il tempo libero è democratizzato, è alla portata di tutti in massicce dosi quotidiane. Anzi di più: come scrive De Masi, ci avviamo a vivere in una società fondata sul tempo libero. E dunque, nonostante si viva in un mondo del lavoro ove impera la flessibilità – che significa non solo precarietà nella conservazione del medesimo posto di lavoro, ma anche una sempre più frequente incapacità di tracciare una netta linea di demarcazione tra tempo lavorativo e tempo libero – il fatto che si abbia più tempo da impiegare in attività cosiddette ricreative (loisir, leisure) è un dato difficilmente contestabile. Lo dimostra la crescita esponenziale del mercato turistico che si avvia a raggiungere la quota del 20% del PIL a livello mondiale,13 lo ribadisce (se vogliamo guardare all’intimità delle nostra mura domestiche) l’utilizzo massiccio di quello straordinario strumento mangiatempo che è la televisione. Forse per molti è sottoscrivibile la battuta che Houellebecq fa pronunciare al protagonista di Piattaforma: “Non mi sentivo infelice, avevo centoventotto canali”: ognuno in fondo pone l’orizzonte della propria felicità laddove crede, qualcuno probabilmente anche in un’accumulazione di decoder e abbonamenti alla pay-tv. Ma credo tutti si sia disposti a riconoscere che una serata trascorsa a colpi di zapping non serva a tenere la noia fuori dalla porta. Il punto è che avere del tempo a disposizione – come ha scritto Armando Torno – “non implica un miglioramento spirituale, né si è trasformato in un aumento della qualità delle esistenze. In troppi casi, questo significa soltanto che si perde più tempo”. 

Un passaggio chiave nel processo di democratizzazione della noia è rappresentato dalla quantificazione del tempo destinato al lavoro. Simmel e successivamente Polanyi rilevano che, nel momento in cui il denaro consente di “misurare” qualsiasi cosa – dai beni della natura al valore del lavoro umano – la qualità dei medesimi tende inevitabilmente a essere posta in secondo piano rispetto alla loro reciproca comparazione, ovvero alla loro commercializzazione secondo le leggi del mercato. Com’è noto anche la moderna scienza dell’informazione si basa sul modello, elaborato da Shannon e Weaver, che consente di quantificare l’informazione che viaggia in un determinato canale in una definita unità di tempo. Le due tendenze si sviluppano contestualmente: le prime riflessioni sulla quantificazione dei tempi di lavoro sono formulate da David Ricardo nel 1817- 1821, mentre il primo calcolatore progettato da Charles Babbage è del 1822. Naturalmente non è una coincidenza. Infatti se si riesce a segmentare e quantificare il processo lavorativo che conduce alla produzione di un manufatto, si può innanzitutto pensare di migliorare, specializzandola, ogni fase della lavorazione e, in seconda battuta, si può ipotizzare di sostituire alla mano d’opera un congegno meccanico che svolga operazioni prima semplici e poi, via via, sempre più sofisticate. Pare che un giorno Frederick Winslow Taylor, il più grande teorico dell’organizzazione scientifica del lavoro, vedendo un operaio che stava organizzandosi la propria postazione di lavoro, esclamasse: “Lei è pagato per lavorare, non per pensare”. Il fatto è  che, anche il più sventurato Charlot costretto alla più infame e ripetitiva catena di montaggio, è comunque un essere pensante e questo è ciò che lo rende abile a compiere operazioni del tutto elementari – come serrare un dado o incastrare due componenti – utilizzando una percentuale infinitesimale della propria intelligenza. Non così una macchina alla quale, se si vuole che sostituisca l’uomo nelle sue mansioni lavorative, deve essere spiegato per filo e per segno cosa fare e quando. Occorre cioè un approccio di natura informazionale al problema: quello, appunto, su cui si sono concentrati Babbage, Turing, Von Neumann, Shannon e Weaver. Per la prima volta nella storia della tecnologia umana si è costruita una macchina – il computer – in grado di eseguire ciò che desideriamo, a patto naturalmente di saper esprimere le nostre richieste in forma di algoritmo. L’automazione, che deriva da questa capacità sempre più ampia di delegare alle macchine l’autonomo svolgimento di compiti sempre più disparati, ci garantisce una certa disponibilità di tempo libero.20 Anzi, siamo stati così bravi a creare sistemi informativi, che ora l’informazione è automaticamente processata, amplificata, riprodotta, diffusa; ben oltre le nostre capacità di controllo. Nella celebre sequenza iniziale di 2001: odissea nello spazio, lo scimmione che inventa la tecnologia impugnando per la prima volta un’arma, lo fa casualmente, mentre bighellona. Quel momento supremo di passaggio dalla preistoria alla storia è dunque causato dalla noia. Se allora vogliamo considerarci parte di quel consesso umano che, come nel lampo di genio del capolavoro di Kubrick, dall’era delle caverne è giunto in un batter d’occhio alle astronavi,22 dobbiamo renderci conto di quanto siamo ontologicamente soggetti alla noia. Come ha scritto Bertrand Russell: Alla noia, quale uno dei fattori del comportamento umano, è stata data, a parer mio, molta meno attenzione di quanta essa ne meriti. Essa è stata, credo, una delle grandi forze motrici attraverso la storia, e tale è più che mai ai nostri tempi. Secondo la prospettiva di Russell, la noia sembra da intendersi come una sorta di meccanismo di difesa dell’uomo contro un’eccessiva carenza di stimoli, tale da condurre a un progressivo appiattimento delle funzioni cerebrali. Quando le informazioni in nostro possesso sono scarse o, soprattutto, non sono significative, si manifesta una sensazione di noia che dovrebbe spronare il soggetto alla proattività. Ora però, dopo aver costruito sistemi che ci consentono di avere informazioni in tempo reale, in quantità infinita, provenienti da ogni parte del mondo, la noia sembra manifestarsi piuttosto come sintomo della sindrome da information overload. In ogni caso, sia che si tratti di anoressia informativa, sia invece di bulimia, la noia si manifesta quando il nostro organismo è sottoposto a uno scompenso informativo, quando cioè salta l’equilibrio tra le informazioni che riceviamo e quelle che riusciamo a caricare di senso.

Al cospetto, di questo ridente panorama, bisognerebbe parlare di contromosse o, forse, di antidoti. Bisognerebbe cioè considerare quali strategie possano risultare utili per convertire il tempo della noia nel tempo della creatività e della ricreazione spirituale. In breve: bisognerebbe considerare la noia come un’opportunità, in quanto “it gives people a chance to be contemplative”. Il suggerimento di una voce che ci giunge dal mondo classico è questo: Se saprai richiamarti agli studi, fuggirai ogni forma di fastidio della vita e non desidererai che venga la notte per la noia della luce, non sarai di peso a te stesso né di troppo per gli altri; attrarrai molti nella tua amicizia e tutti i migliori verranno a te. Richiamarsi allo studio significa, inevitabilmente, dedicarsi alla lettura. Una lettura che non sia semplicemente “evasione”, cioè un sistema, come tanti altri, per sfuggire al tedio del tempo vuoto, ma approfondimento, arricchimento, stimolo, sorpresa. Può essere sufficiente aprire un libro per sfuggire alla noia, non certo per trasformarla in otium. Se si considera la lettura semplicemente come uno fra i possibili “scacciatempo”, inevitabilmente a lungo andare diverrà essa stessa noiosa; lo dimostra la vicenda di Emma Bovary che chiude, come tanti in giovane età, la sua carriera di lettrice con un’affermazione perentoria: “Ho letto tutto”. Incapace di mettere a frutto la propria solitudine attraverso la pratica dello studio, Emma cercherà di valicare le pareti della sua prigione appigliandosi alle proprie pulsioni sessuali, come del resto avverrà anche a Katerina Ismailova, protagonista della Lady Macbeth del distretto di Mzensk di Sˇostakovicˇ, anch’ella proprietaria di una biblioteca, inutile rimedio a una noia che la porterà alla rovina. Svendsen sottolinea come “la noia di Emma Bovary sembrerebbe più affine alla specie ‘moderna’, anche se è collegata all’oggetto immaginario che in questo caso è un oggetto sessuale”. È noto infatti ab antiquitate come – in relazione allo sfruttamento del tempo – sesso e lettura siano pratiche concorrenziali e che quest’ultima sia inesorabilmente destinata a soccombere, ove si presentino le opportune condizioni di praticabilità della prima: il libro galeotto “giace svolazzante e ormai inutile ai piedi di Paolo e Francesca”. È invece proprio della modernità accostare sesso e noia, e infatti la modernità di Emma consiste nella scelta del sesso come dell’arma suprema per combattere il suo senso di vuoto, relegando la lettura tra le pratiche inutili a questo scopo. Si tratta dello stesso atteggiamento assunto da Dino, il protagonista de La noia di Moravia, un altro lettore smarrito: Prendevo un libro, avevo una piccola biblioteca, sono sempre stato un buon lettore; ma ben presto lo lasciavo cadere: romanzi, saggi, poesia, teatro, tutta la letteratura del mondo, non c’era una sola pagina che riuscisse a trattenere la mia attenzione. E d’altronde perché avrebbe dovuto farlo? Dino ha smarrito la sua capacità di trarre dalla lettura le motivazioni per dare un senso allo scorrere del suo tempo: era un “buon lettore”, ora non lo è più. Se è dunque la “buona lettura” che riesce a tenere lontana la noia, dovremmo anche domandarci il perché, oggigiorno, siano in tanti a comportarsi come il protagonista del romanzo moraviano: la schiera dei “buoni lettori”, infatti, tende inesorabilmente ad assottigliarsi. Ma vediamo innanzitutto di intenderci sul concetto di “buona lettura” lasciandoci guidare da George Steiner che a questo argomento ha dedicato un saggio illuminante.47 Secondo il critico francese vi sono determinate condizioni ambientali che favoriscono la lettura autentica, la principale delle quali è, manco a dirlo, il silenzio. Si tratta, come sappiamo, di un bene difficilissimo da reperire nel rumorosissimo mondo contemporaneo in cui, peraltro, sembra d’obbligo l’accompagnamento di ogni nostra attività con un sottofondo musicale più o meno appropriato; se è vero che siamo un po’ tutti attori in un gigantesco “Truman show”, è inevitabile che la colonna sonora giochi un ruolo essenziale ai fini della qualità del prodotto: E poi osservare le età che leggono libri, oggi: sono quelle che assorbono meno musica, meno stimoli sonori. Il consumo giovanile di musica, in tutto l’Occidente, è sfrenato, va dalla concentrazione in cuffia isolatrice dal mondo, all’estasi collettiva da stadio. Il consumo passivo è anche più forte: la filodiffusione arriva nei cessi, nelle cabine telefoniche; nella camera del bambino la mamma fa ronzare il cd da quattro lati. Diventerà un leggente? Sì, ma di programmi, visivi, sonori, turistici… Con troppa musica in corpo, maldigerita, non si cerca il libro. La ricerca del silenzio in un certo qual modo definisce implicitamente anche l’organizzazione logistica più idonea alla pratica della lettura, il che significa – e siamo a un secondo punto essenziale nel ragionamento di Steiner – ipotizzare un basilare atteggiamento di rispetto con il quale il lettore si avvicina al testo. Si può leggere ovunque e comunque, ma la buona lettura prevede l’esercizio delle buone maniere, in quanto trattasi di un atto dalla forte carica rituale; siamo di fronte a una trasmissione di pensieri fra uomo e uomo attraverso lo strumento libro che travalica i confini del tempo e dello spazio: di fronte a questa manifestazione di sovrumana potenza non sono ammissibili distrazioni e sciatterie: altro che i diritti del lettore di Pennac, cominciamo a parlare di doveri! Naturalmente il testo, per ispirare rispetto, deve essere rispettabile: non si possono fare buone letture su libri editi male e stampati peggio: “Colui che lascia passare i refusi senza correggerli non è soltanto un ignorante: bestemmia contro lo spirito e contro il senso”. Se il luogo e l’atteggiamento sono elementi importanti per stabilire la qualità di una lettura, c’è però una pratica che risulta – a questo scopo – essenziale, ed è la scrittura. Sì, il buon lettore è colui che sottolinea, annota, commenta, prende appunti, riempie la pagina di note a margine, vive – insomma – con il testo un rapporto attivo: “Leggere bene significa rispondere al testo, implica una responsabilità che sia anche risposta, reazione. Leggere bene significa iniziare una relazione di reciprocità responsabile con il libro letto, lanciarsi in uno scambio totale”. Si capisce perché, a partire dall’epoca illuministica, i dibattiti sull’alfabetizzazione di massa siano stati particolarmente acerrimi non solo sulla necessità di insegnare a leggere alla più parte della popolazione, ma soprattutto sull’opportunità che il popolo fosse iniziato o meno ai rudimenti della scrittura.53 Se la lettura instilla dubbi, la scrittura è sovversiva. Se la lettura può essere attiva o passiva, la scrittura è sempre frutto di una determinata volontà espressiva. Giunti a questo punto diventa chiaro il perché noia e buona lettura siano fra loro del tutto antitetiche: il libro, per funzionare, “ha bisogno di fantasia; necessita, per vivere, della collaborazione inventiva del lettore”. Nel momento in cui, come si è detto, questi spazi della fantasia e del sogno vengono colonizzati, il meccanismo di funzionamento del piacere del testo si interrompe: entra in crisi la buona lettura e la noia prende il sopravvento. Il processo generalizzato di impacchettamento dell’immaginario ha colpito profondamente il mondo del libro e sta rapidamente mutando la fisionomia dei lettori. Come rileva Nisticò:

In particolar modo in quelle grandi kermesse del libro e della lettura come il Salone del libro di Torino o il Festival della letteratura di Mantova si percepisce con maggiore acutezza l’esaltazione dell’involucro istituzionale della lettura, a discapito dei suoi contenuti culturali.

Si zampetta in questi giardinetti prefabbricati della lettura; si spilucca. Si fanno letture svogliate: La soverchia quantità di libri è un peso: pertanto se non fai in tempo a leggere tutti i libri che hai, basta che ne abbia quanti ne puoi leggere. Ma io voglio sfogliare, tu dici, ora questo ora quel volume. Ebbene bada che questo bisogno di assaggiare molti cibi diversi è cosa propria degli stomaci sofferenti di nausea: e in tal caso i cibi invece di nutrire inquinano lo stomaco.

 Nella società dell’informazione l’alfabetizzazione è una necessità fondamentale, in quanto funzionale ai fini del consumo dell’informazione stessa, e dunque dell’intero volano economico sul quale si regge l’Occidente contemporaneo. Questo livello minimo di comprensione del testo e di interpretazione del medesimo non prelude necessariamente alla capacità di saper sviluppare una buona tendenza alla lettura, quanto piuttosto fomenta un accumulo di dati sempre più massiccio, indifferenziato e farraginoso: esiziale per la crescita e l’affinamento di una solida capacità critica. È da almeno centocinquant’anni che scrittori come Manzoni e Flaubert cercano di metterci in allarme contro la perniciosità di questo tipo di lettura: oggi si tratta di contarci, di capire cioè in quanti siamo ad essere ancora sensibili nei confronti dei loro ammonimenti. 

E le biblioteche?

Nutro profondissimi dubbi sul fatto che l’istituto bibliotecario sia di conforto al buon lettore. La spiegazione è semplice al punto da sfiorare la tautologia: non è nell’essenza della biblioteca la promozione della buona lettura. Una biblioteca è tale non perché invogli o obblighi il lettore a un determinato tipo di approccio al documento, ma perché – in un qualche modo – “essenzialmente” gli mette a disposizione il documento. Sarà l’aggettivo qualificativo a specificarne le condizioni di accessibilità: biblioteca pubblica, privata, multimediale, digitale… Se dal campo ontologico passiamo alla considerazione della peculiare funzione storica della biblioteca nella nostra società dovremmo domandarci se tra i suoi valori, visto che negli ultimi anni si discute molto di biblioteconomia contemporanea, si trova la resistenza contro il degrado della buona lettura. Un paio di considerazioni preliminari: a) come ha recentemente scritto Alberto Petrucciani, “le biblioteche non sono mai state al centro di niente, se non di se stesse, e non sono mai state il primo, men che meno l’unico, luogo a cui attingere informazioni (o, più ampiamente e propriamente, conoscenza e cultura)”; b) si dovrebbero effettivamente considerare con più attenzione le conseguenze dell’allevamento di buoni lettori, senz’altro più critici verso il mondo in cui vivono ma, spesso, disadattati e fortemente a rischio di esaurimento nervoso: Non sopporto l’idea che la narrativa seria ci faccia bene, perché non credo che esista una cura per tutte le cose sbagliate del mondo, e anche se lo credessi, che diritto avrei di offrire una cura, io che per primo mi sento ammalato? E in ogni caso, è difficile considerare la letteratura una medicina quando leggere servirà soprattutto ad aumentare la deprimente estraniazione dalla massa; prima o poi il lettore attento alla propria salute finirà con l’identificare la lettura stessa con la malattia. Ciò premesso, e dunque con la piena consapevolezza che invogliare oggi alla buona lettura è una pratica socialmente pericolosa, bisogna osservare che gli sforzi condotti in biblioteca a questo scopo hanno un’importanza fondamentale, riconosciuta peraltro anche dal Manifesto Unesco. La loro importanza consiste nella possibilità da parte dei bibliotecari di tramandare, insieme al patrimonio documentario, anche la chiave di accesso per la consultazione del medesimo. Se infatti prevarrà la tendenza assoluta alla lettura epidermica e dunque superficiale imposta dalle tecnologie digitali, ci ritroveremo a trasferire alla posterità non vere biblioteche, ma ammassi di carta sostanzialmente inutili e inutilizzabili, esattamente come già avvenuto per molte basi dati costituite in un passato nemmeno troppo remoto e oggi inaccessibili per non aver salvato l’appropriato software in grado di renderle consultabili. I bibliotecari sono stati sempre in prima linea nel sottolineare l’importanza di una corretta alfabetizzazione informativa utile per capire e utilizzare i nuovi media, proprio perché hanno dimestichezza con i processi di codificazione e decodificazione, senza i quali i documenti – di qualunque natura materiale essi siano – rimangono lettera morta. Molta più dimestichezza, oserei dire, rispetto a tanti frequentatori di istituzioni espressamente volute dalla società per l’educazione del cittadino. Il bibliotecario sa bene che il suo compito è terminato nel momento in cui mette in connessione il lettore con il documento richiesto. Ma sa anche che in molte situazioni, oggi, non ci si deve accontentare di questo livello minimo, seppure fondamentale, di servizio. Verso quale traguardo far convergere gli sforzi? Auspicherei per il futuro biblioteche che più dubbiose. Forse le nostre biblioteche soffrono di una sorta di “ansia da prestazione”, nel senso che l’eccessiva attenzione verso performance ottimali in termini di efficacia e di efficienza ha lasciato in secondo piano un aspetto determinante per la buona lettura: il margine di aleatorietà che sta alla base di ogni processo culturale. Se è vero che il principale elemento che caratterizza la biblioteca contemporanea è il servizio di reference, ci siamo chiesti cosa accade quando questo servizio è erogato online? Non mi riferisco alle domande che richiedono dati fattuali, per i quali – sempre più in futuro – sarà Google a giocare un ruolo chiave agli occhi dell’utente. Mi riferisco a domande generiche, complesse, sibilline o, più semplicemente, stupide. Se tenderemo a rispondere a tali domande con le dinamiche insite nei servizi online, preferiremo risposte puntuali a codesti quesiti, eliminando in siffatto modo gli spazi della discussione, del dialogo e dell’incertezza. Così facendo forse i nostri utenti saranno soddisfatti, perché, come scrive Solimine, dalla biblioteca gli utenti si attendono risposte, eppure essa è il luogo del dubbio e dell’incertezza. Tra i compiti della biblioteca c’è quello di rappresentare la molteplicità del reale e di fornire chiavi di lettura di questa realtà, strumenti per interpretarla, e non rassicuranti certezze dietro le quali nascondere i problemi. Personalmente sarei anche più drastico e vorrei dire, con Cioran, che “un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo”. Auspicherei per il futuro biblioteche più faziose. Gorman ha scritto che “dovremmo essere degli assolutisti quando si parla di libertà intellettuale, portare a compimento i nostri doveri senza far riferimento alle nostre opinioni personali”. Non mi ritrovo in questa affermazione innanzitutto perché è già essa stessa esplicitamente assolutista, in secondo luogo perché è impossibile da realizzare (sfido chiunque a lavorare mettendo da parte ciò che pensa, dunque ciò in cui crede, dunque ciò che egli stesso è), in terzo luogo perché è contro la natura stessa della biblioteconomia, contro l’idea di selezione dei materiali: si potranno fare delle scelte più o meno corrette, senz’altro discutibili, ma non scegliere è peggio: non può esserci posto in biblioteca per l’indolenza della “scheda bianca”. Come ha scritto Evelyn Geller in riferimento alla legislazione americana: “The First Amendment, after all, is only permissive, while libraries must, for budgetary and intellectual reasons, exercise some screening capacity over the wealth and quality of available material” Ma se i bibliotecari non fossero in grado o non volessero prefigurarsi tali scomodi obiettivi per il loro futuro prossimo venturo, auspicherei, paradossalmente – e per ritornare al tema iniziale – una crescita di biblioteche dominate unicamente dall’elettronica, dal demone del tempo reale, dalla esattezza dell’informazione puntuale customer oriented, dall’asservimento a regolamenti sciocchi e presuntuosi. Biblioteche sempre più noiose, insomma, che potrebbero ugualmente giovare alla soddisfazione dell’utente in quanto essere umano. Perché quando la noia ci colpisce, scrive Iosif Brodskij, non bisogna tentare di sfuggire ma la si deve prendere tutta, a pieno, a fondo, per capire il valore del nostro essere: Voi siete insignificanti perché siete finiti. E però, più una cosa è finita, più è pregna di vita, emozioni, gioia, paure, compassione. Perché l’infinità non è poi così vitale, così ricca di emozioni. La noia, almeno, ve lo dice. Perché la vostra noia è noia di infinito.

Testi consultati:

-    Bernstein, J. Uomini e macchine intelligenti. Milano: Adelphi. 1990; 
-    De Masi, D. Ozio creativo. Conversazione con Marzia Serena Palieri. Milano: Rizzoli, 2000;
-    - Derrick De Kerckhove. La pelle della cultura. Un’indagine sulla nuova realtà elettronica. Ancona – Milano: Costa & Nolan, 2002;
-    Flaubert, G. La signora Bovary. Torino: einaudi, 2001;  
-    Houellebecq, M. Piattaforma. Nel centro del mondo. Milano: Bompiani, 2004;
-    Lucius annaeus Seneca. De tranquillitate animi. Tradotto da Caterina Lazzarini. Milano: Rizzoli, 1997; 
-    Petruccini A., Gorman, M La biblioteca come valore. Tecnologia, tradizione e innovazione nell’evoluzione di un servizio, a cura e con prefazione di Mauro Guerrini. Udine: Forum, 2004;
-    - Rifkin, J. L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy. Mialno: Mondori, 2000
-    Torno, A. Le virtù dell’ozio. Milano: Mondadori, 2002;
-    Vattimo, G. la società trasparente. Milano: garzanti, 2000

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
Email: prof_biblio_lodesal@yahoo.com