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I volti della paura

Di Prof. Alessio Lodes

La paura, quando viene studiata dal punto di vista storico, culturale e sociale, mostra elementi interessanti e singolari. Le attuali società occidentali presentano a questo riguardo uno strano paradosso. 

La paura è un’emozione basica che ha lo scopo di mettere in guardia dai pericoli, un segnale di avvertimento veloce e potente. Si tratta dunque di un elemento fondamentale per la vita, da non valutarsi negativamente; essa è piuttosto un possibile aiuto da ascoltare. Dal punto di vista psicologico la paura è legata alla percezione di un pericolo reale, concreto e puntuale; anche se appartiene alla sfera emotiva rimane sempre frutto di una valutazione a proposito di quanto sta accadendo, compiendo una previsione sul possibile andamento delle cose. La paura può manifestarsi in relazione ad animali o ambienti particolari (fobia), diventare diffusa fino a perdere il controllo, impoverendo la sua componente valutativa (panico); può essere conseguenza di una acuta sofferenza interiore (ansia), o uno stato durevole e profondo della persona (angoscia). La paura, quando viene studiata dal punto di vista storico, culturale e sociale, mostra elementi interessanti e singolari.

Le attuali società occidentali presentano a questo riguardo uno strano paradosso. Da un lato vi si nota una situazione di benessere senza precedenti, che consente di risolvere con facilità la maggior parte dei problemi legati alla sopravvivenza, offrendo ad un sempre maggior numero di persone possibilità di istruzione e di cura. D’altra parte questa aumentata sicurezza presenta un costo molto alto: la proliferazione della paura. Per uno strano meccanismo psicologico, la ricerca eccessiva di sicurezza non elimina la paura ma porta piuttosto a incentivarla. La paura sembra essere la sensazione dominante delle nostre collettività, in cui società per assicurazioni sempre più numerose e variegate si sforzano di garantire l’esistenza in tutte le sue fasi. Il sociologico Bauman, nel suo recente studio sulla paura, presenta la situazione in questi termini: Siamo “oggettivamente” le persone più al sicuro nella storia dell’umanità. Come le statistiche dimostrano, i pericoli che minacciano di abbreviare la nostra vita sono più scarsi e lontani di quanto generalmente non fossero nel passato o non siano in altre parti del pianeta […]. Tutti gli indicatori oggettivi che si possono immaginare mostrano un aumento apparentemente inarrestabile della protezione di cui uomini e donne della parte “sviluppata” del pianeta godono su tutti e tre i fronti lungo i quali si combattono le battaglie in difesa della vita umana; rispettivamente contro le forze sprezzanti della natura, contro la debolezza congenita del nostro corpo e contro i pericoli che vengono da aggressioni di altre persone. 

Eppure, con tutto ciò, la paura aumenta; da questo punto di vista sembra di assistere su scala collettiva alla tipica dinamica del bambino viziato: quanto più è stato cresciuto nella bambagia, al riparo da ogni possibile fastidio grazie a genitori premurosi e iperprotettivi, tanto più manifesta una profonda sfiducia in se stesso, diventa triste, noioso, pieno di paure, insofferente a tutto. La ricerca eccessiva di sicurezza porta ad una pericolosa oscillazione emotiva, dalla noia al panico, con preoccupanti ricadute a livello di impostazione di vita, specie in età giovanile, perché spegne l’entusiasmo, il desiderio, la voglia di vivere: «Contrariamente all’evidenza obiettiva, sono coloro che vivono in un agio mai conosciuto prima, che sono più coccolati e viziati di chiunque altro nella storia, a sentirsi più minacciati, insicuri, spaventati, più facili al panico e più attratti da qualsiasi cosa abbia a che fare con la sicurezza e l’incolumità, rispetto alla maggior parte delle altre società del passato e del presente».

La stranezza rilevata dal binomio sicurezza-paura indica come scienza e tecnologia siano strutturalmente incapaci di fornire una risposta adeguata ai problemi più importanti dell’esistenza, rivelando un divario incolmabile: più aumentano le realizzazioni volte a garantire la sicurezza personale e collettiva, più aumentano le costellazioni simboliche e affettive legate alla paura. Paura e ansia costituiscono infatti i messaggi non detti che giungono dalle porte blindate, dalle sofisticate modalità di segretezza bancaria, dalle scorte armate e dalle guardie del corpo, dalle telecamere, dai metal detector e posti di blocco di aeroporti, autostrade e città… Questo tipo di situazione porta al diffondersi sempre più capillare della paura-panica, che a sua volta spinge a fuggire dalla vita reale. Molte protezioni significano molti potenziali pericoli, sempre sul punto di prevalere: «essere protetti significa (nella percezione sociale) anche essere minacciati».

La paura sembra così prosperare proprio quando si fa della sicurezza il criterio supremo del vivere, quando si cerca di evitare i rischi piuttosto che fronteggiarli. E dal momento che questo sentimento si alimenta di suggestione e immaginazione, trova il suo terreno ideale proprio in chi, non dovendo affrontare quotidianamente pericoli reali, finisce per diventare prigioniero di quelli immaginari, di ciò che non capita ma potrebbe capitare: il pericolo è sempre all’erta, pronto a manifestarsi. Tutto questo alla fine, più che allontanare la paura, la ricorda ad ogni istante e, da salutare campanello di allarme verso un pericolo concreto, finisce per trasformarsi in panico ingiustificato. Come osserva sempre Bauman, «“Paura” è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla». La paura inoltre, quando regna indiscriminata, comporta altre spiacevoli conseguenze, come la tristezza, la depressione, l’incapacità cronica di godere della propria vita, perché ossessionati da un male che non esiste ma che potrebbe sempre manifestarsi: «Uno studio realizzato dai ricercatori dello University College di Londra ha dimostrato che chi ha paura di subire atti criminali corre un rischio doppio di ammalarsi di depressione […]; la paura può indurre anche una riduzione di alcune funzioni fisiche nella qualità della vita, e una minore propensione alle relazioni sociali […]. Ridurre questa paura, probabilmente, può contribuire a migliorare la salute psichica di molte persone» .

La crescita esponenziale della paura nella nostra società può diventare comunque anche un grande business, una fonte inesauribile di ricchezza dal punto di vista politicoeconomico: sulla paura prosperano infatti le società di assicurazioni e i suoi sempre più sofisticati e diversificati accessori, ma può diventare anche un potente meccanismo di controllo sociale e di manipolazione delle masse. Un semplice accenno all’essere passati da un allarme “arancione” ad uno “rosso” da parte dei media, senza spiegare cosa significhi né tantomeno portare alcuna giustificazione in proposito, diventa tuttavia sufficiente per scatenare il panico nella popolazione. Il regista M. Moore, presentando il suo film Fahrenheit 9/11, individuava nella paura il meccanismo regolatore della società statunitense:

Questo film è la continuazione dell'idea che sta alla base di Bowling a Columbine. Là avevo esplorato la manifestazione personale della paura, avevo raccontato come le persone possono essere ingannate dalle immagini televisive e intimidite dalle armi. In questo film invece ho scelto di raccontare la paura collettiva, l’isteria di massa che il potere riesce a creare per distrarre l’opinione pubblica dai veri temi. Come ha scritto George Orwell nel suo romanzo 1984 il leader di un popolo deve tenerlo in uno stato di paura costante facendogli credere che in qualunque momento potrebbe essere attaccato, così rinuncerà alla libertà per poter vivere. Gli americani hanno fatto questo negli ultimi due anni e mezzo.

In Italia la situazione non si presenta molto diversa. Una delle forme di paure più utilizzate da parte di chi governa è nei confronti di chi viene ritenuto “diverso” come gli immigrati, distogliendo in tal modo l’attenzione da altri problemi ben più gravi, concreti e scomodi: «Non è un caso che durante la campagna elettorale della primavera scorsa il tema della sicurezza abbia dominato la scena, oscurando i mille problemi che affliggono la maggior parte degli italiani. Eppure anche l’ultima rilevazione del Censis, mette in evidenza che in Italia le principali preoccupazioni riguardano la casa e il lavoro. Tutto il resto, paura dello straniero, sicurezza, degrado urbano, resta indietro di parecchi punti. Eppure i media continuano a perpetuare il mantra della sicurezza come se fosse l’unico argomento che interessa». Si riscontra in tal modo il medesimo paradosso: paura e pericoli effettivamente presenti procedono su binari opposti... Anche sul versante psicologico e psichiatrico si nota la medesima tendenza in occasione di fatti legati alla cronaca nera, specie se di dominio pubblico. È anche a motivo della pressione emotiva della paura che psicologi e psichiatri sono con facilità portati, nelle pagine dei quotidiani o in salotti televisivi, a classificare le persone come “disturbate” o “folli”, senza portare alcuna diagnosi in merito, che richiederebbe una conoscenza accurata del contesto educativo, sociale e culturale in cui essi hanno maturato, spesso nel corso di molti anni, tali propositi. Si pensi ad esempio alla difficoltà di classificare quel fenomeno, sempre più spesso oggetto di cronaca, noto come “reato d’impeto”, un comportamento in cui la persona agisce in preda ad un raptus di momentanea follia violenta e distruttiva, fino all’omicidio, senza poi ricordare nulla di quanto compiuto. Nonostante più di un secolo di ricerche in campo psichiatrico, si tratta di una fenomenologia che non trova ancora un nome e una causa adeguata: essa rimane tuttora un enigma, uno dei tanti aspetti misteriosi dell’agire umano che sfuggono ad ogni tentativo di catalogazione. Eppure essa viene con facilità messa in campo come difesa dalla paura, come osserva lo psichiatra Fornari al temine della sua ricerca in proposito:

Nell’epoca attuale, si rischia di utilizzare le classificazioni per rassicurare giudici, massmedia e opinione pubblica circa il fatto che finché ci saranno psichiatri la gente potrà fare affidamento sulla loro capacità di discriminare i “sani” dai “matti”. Pertanto, chi mette in atto emozioni e passioni attraverso condotte conformi può stare tranquillo. Chi passa all’atto con modalità difformi, violente, delinquenziali, invece, ha la celletta psicopatologica in cui essere collocato e con cui essere etichettato, a conforto e serenità di tutta quell’altra umanità che — agendo, sentendo e pensando in maniera “integrata” — potrà sostenere di non dover condividere nulla con il “mostro”. Gli psichiatri, con il loro furore classificatorio, stanno diventando i garanti di questi pregiudizi, quando con tanto zelo si accaniscono nel tentativo di spiegare e di ricondurre i comportamenti umani “difformi” — e non solo quelli più efferati, disturbanti, non comprensibili e sgradevoli — nell’ambito della psicopatologia.

La paura diffusa diventa un potente ostacolo anche nei confronti della dimensione religiosa dell’esistenza. La ricerca di sicurezza assoluta non risparmia ovviamente neppure quest’ambito; leggi e precetti possono essere adempiuti come garanzia di essere a posto con Dio e con la propria coscienza, senza interrogarsi in profondità sul senso del proprio agire. Questo atteggiamento si nota ad esempio in sede di confessione sacramentale, là dove la persona sembra incapace di riconoscere qualcosa di cui rimproverarsi, e dunque di cui essere perdonata, trincerandosi dietro il fatidico ritornello: «Padre, cosa debbo dirle? Rubare non ho rubato, ammazzare non ho ammazzato... sono a posto con Dio». La tendenza a ridurre la relazione con Dio ad un livello puramente legale è una difesa di fronte alla paura sottostante, non solo delle proprie fragilità e debolezze, ma soprattutto nei confronti di un incontro spiazzante e imprevedibile con il mistero di Dio:

La psicologia clinica e la psicoterapia ci dicono che la religione ha un solo grande nemico, un nemico molto potente, che non è l’egoismo o l’aggressività, ma la paura. L’effetto principale della paura è costruire una barricata contro la potenza dell’amore e della fede in Dio. Per Gesù la paura e la sfiducia in Dio erano i grandi nemici per l’uomo; basta ricordare l’episodio della tempesta placata, in cui egli rimprovera i discepoli non di poca virtù, ma di essere paurosi, per accorgersi quanto il suo insegnamento, dal punto di vista psicologico, ha voluto allontanare l’uomo proprio dalla paura.

Questa visione della vita finisce infatti per smarrire la dimensione di progettualità, componente di rischio, certamente, ma anche di appetibilità, di desiderio di spendersi per qualcosa che vale; tutto ciò ha pesanti ripercussioni in altri ambiti della dimensione religiosa come ad esempio la scelta vocazionale. Un documento sulla situazione delle vocazioni in Europa indicava nell’eccessiva sicurezza e abbondanza di beni una causa del grave disorientamento del giovane, e non solo!, ridotto a vagare tra mille differenti possibilità offerte senza però decidersi per nessuna, per la paura della rinuncia o di fallire, con pericolose ricadute sulla stima di sé:

In mezzo alla grande quantità e diversità delle informazioni, ma con povertà di formazione, [=i giovani] appaiono dispersi, con poche referenze e pochi referenti. Per questo hanno paura del loro avvenire, hanno ansia davanti ad impegni definitivi e si interrogano circa il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza ad ogni costo, dall'altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall'ambiente socioculturale ed a cercare la gratificazione immediata dei sensi: di ciò che «mi va», di ciò che «mi fa sentire bene» in un mondo affettivo fatto su misura. Fa un'immensa tristezza incontrare giovani, pur intelligenti e dotati, in cui sembra spenta la voglia di vivere, di credere in qualcosa, di tendere verso obiettivi grandi, di sperare in un mondo che può diventare migliore anche grazie ai loro sforzi. Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o nel dramma della vita, quasi dimissionari nei confronti d'essa, smarriti lungo sentieri interrotti e appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale. Senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che, tutt'al più, sarà una fotocopia del presente.

In tal modo il progresso tecnologico, economico e sociale, pur sfornando strumentazioni sofisticate e multifunzionali capaci di giungere a livelli di possibilità mai visti prima, non sembra con ciò in grado di sconfiggere la paura, finendo piuttosto per generarne altre, ben più minacciose e implacabili. Si realizza così quanto aveva preannunziato Kafka nel racconto La tana: un animale, roso dalla paura di essere aggredito, si dedica con tutte le sue forze alla realizzazione di un rifugio inattaccabile. Eppure, quanto più vi lavora tanto più cresce la sua ansia, si insinuano dubbi e obiezioni circa la tenuta delle pareti, la solidità degli sbarramenti, le possibili modalità di entrata del nemico. Alla fine, esasperato, abbandona tutto ed esce all’aria aperta, preferendo un nemico visibile ad uno invisibile.

Testi consultati:

- Barberi, M.  Paure (in)controllate», in Mente e cervello 45 (2008) 29-35
- Bauman, Z. Paura liquida. Bari: Laterza, 2008; 
- Bava, M. I mille volti della paura. Milano: Mondo ignoto, 2001;
- Fornari, U. Monomania omicida. Origine ed evoluzione storica del reato d’impeto. Torino:  Centro Scientifico, 1997;
- F. KAFKA, «La tana», in ID., Tutti i racconti, Mondadori, Milano 1984;
- Ionata, P. «I guai del perfezionismo religioso», in Città Nuova 2 (1990);
- I. YALOM. Guarire d’amore. I casi esemplari di un grande psicoterapeuta. Milano: Rizzoli, 1990;
- S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n. 315. 20 
- S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n. 325.
- SHAKESPEARE, W. Giulio Cesare, atto II, scena II, in ID., Tutte le opere, Milano: Sansoni, 1993;
- STEIN, E. «La causalità psichica», in ID., Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, Città Nuova, Roma 1996;

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
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