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Donne illustri, volte e filosofia: tra mito e realtà 

Di Prof. Alessio Lodes

Nel Rinascimento europeo, ripercorrendo  la trattatistica sulla donna, emerge come le donne fossero atte allo studio e che sia stato ampiamente utilizzato il leitmotiv di matrice aristotelica secondo cui la complessione più morbida e delicata delle donne sarebbe stata segno di maggior acutezza d’ingegno. Secondo la retorica del discorso filogino, quindi se non nella concezione comune, le donne erano per natura potenzialmente in grado di eccellere in qualsivoglia dottrina se messe nella condizione di studiare.

Come noto, per avallare le tesi dell’eccellenza femminile, o al contrario, dell’inferiorità delle donne, era prassi nell’ambito della “Querelle des femmes” riportare exempla di donne illustri, personaggi storici o mitologici, tratti dalle storie antiche, dalla Sacra Scrittura o dalla letteratura, antichi e moderni in grado di mostrare, tra un trattato e l’altro, come le donne fossero degne di lode, o piuttosto esseri inferiori e da biasimare. Nella letteratura più o meno paradossale a favore delle donne, lo spazio dedicato alle donne illustri dell’antichità era notevole: esse corredavano il discorso sulla donna e i loro nomi echeggiavano dai cataloghi del De Claris Mulieribus di Boccaccio in poi, passando per l’Officina di Ravisius Taxtor (1520), agli scritti sulla nobiltà delle donne di Mario Equicola (1501), Galeazzo Flavio Capra (1525), Cornelio Agrippa tradotto da Francesco Coccio (1544), Lodovico Domenichi (1549), Domenico Bruni (1552), solo per citare alcuni tra i più noti, per giungere agli scritti delle donne stesse, primo fra tutti quello di Lucrezia Marinella (1600). Esse erano citate per le loro virtù tipicamente “femminili”, quali: bellezza, castità, obbedienza, umiltà o per la loro abilità in qualsivoglia attività tipicamente “maschile”, quale il governo di città, l’attività bellica, la strategia politica e non ultima la sapienza, per di dimostrare le potenzialità delle donne. Nell’ambito del campo d’indagine qui proposto, intendo considerare fino a che punto le donne sapienti descritte nei cataloghi di donne illustri – letterate e filosofe – e proposte come exempla fossero lette unicamente come casi eccezionali, in grado di dimostrare il valore delle donne e al massimo associate a casi di donne contemporanee altrettanto eccezionali, ma che di fatto non erano imitabili, o potessero essere interpretate come esempi da seguire; se, quindi, queste donne esemplari, a prescindere dalla retorica paradossale che animava i trattati e i discorsi accademici che affrontavano l’argomento, avessero avuto un impatto sull’autostima delle donne reali e sulla loro volontà di scrivere e rappresentarsi.

Mentre le Amazzoni e le donne guerriere erano figure quasi mitologiche, delle virago che pur dimostrando le potenzialità femminili di acquisire forza fisica e potere politico, non erano oggettivamente imitabili nella realtà del tempo, se non parzialmente da alcune donne di potere, gli esempi di donne sapienti avevano un maggiore riscontro nella cultura rinascimentale. Certamente non era la prassi comunemente accettata e il fenomeno era limitato a un’élite colta e illuminata, ma le donne che scrivevano nel Cinquecento, venivano di fatto incoraggiate a farlo, seppure con atteggiamenti paternalistici e in un ambiente ristretto, spesso legato al mondo dell’editoria, e in molti casi godevano di effettiva stima e rispetto presso i contemporanei. Non è un caso quindi che gradualmente nei trattati in lode della donna aumentino gli esempi di donne illustri contemporanee. Questi possono essere distinti in due categorie: da una parte troviamo un gran numero di nobildonne del tempo note e con un certo potere, lodate per le loro innumerevoli virtù a scopo encomiastico, e dall’altra le scrittrici, tra cui, oltre alle umaniste Cassandra Fedele e Isotta Nogarola, compaiono i nomi di Vittoria Colonna e Veronica Gambara, e successivamente, verso la fine del secolo, di altre autrici, fino ad integrare i cataloghi esistenti con giunte.

Ma nell’ambito dei modelli e delle donne eccezionali, come si collocano le filosofe? Tra gli esempi di donne illustri dell’antichità le donne dotte in filosofia, tra cui le più citate erano Diotima e Aspasia, avevano una nutrita rappresentanza e venivano citate insieme alle letterate per dimostrare la sapienza muliebre. Tuttavia, mentre le letterate trovavano un riscontro nella realtà contemporanea almeno a partire dalla metà del secolo, quando dopo il successo di Vittoria Colonna, numerose donne scrivono rime petrarchesche, le donne che si riconoscevano come filosofe erano rare. Se il collegamento con Saffo, recentemente riscoperta, era quasi d’obbligo per le rimatrici del tempo, le filosofe antiche sembrano non avere immediata corrispondenza nel presente. Questo emerge anche dagli elenchi di donne illustri contemporanee, in cui, tra le donne note per la loro sapienza, spiccano sempre di più le poetesse, ma non le filosofe. È possibile quindi che ci fosse una differenza nel modo in cui erano percepite letterate e filosofe. Mentre le une erano modelli potenzialmente imitabili o comunque accomunabili alle donne del tempo, le altre come le Amazzoni e le guerriere, erano probabilmente interpretate come figure mitologiche o esotiche, volte sulla carta ad esaltare le potenzialità delle donne, ma di fatto non identificabili con donne reali, e descritte fondamentalmente per mettere in evidenza lo scarto tra l’eccezione e la regola. Come si noterà, nelle opere scritte da donne qualcosa cambia.

Nella trattazione teorica dell’eccellenza delle donne, sebbene la natura e le potenzialità femminili vengano almeno in teoria rivalutate, mancava una reale progettualità volta a modificare il sistema. Se da un lato, infatti, gli autori dei trattati dimostrano con vari argomenti che per natura le donne sono in grado di dedicarsi allo studio se istruite in modo consono, e avvalorano la tesi con esempi di donne colte di un passato mitico, biasimando il tempo presente per non permettere che ciò accada, d’altra parte non propongono un effettivo cambiamento dello status quo. Sebbene, infatti, emerga una sorta di denuncia della situazione delle donne, essa viene considerata un dato di fatto, che lascia inalterata l’idea che le donne che si dedicavano allo studio e alla scrittura erano fenomeni eccezionali e meravigliosi, mentre le altre restavano nelle loro prigioni domestiche con ago e filo, “oeconomicae dedicatur quasi ergastulo”, per usare le parole di Mario Equicola (Equicola, 2004: 30). Le motivazioni date all’annosa questione sulle ragioni della mancanza di una tradizione di scritti di donne, vanno dalle più paradossali esposte da Francesco Grasso nel dialogo di Domenichi, secondo cui le donne non scriverebbero perché “il loro giudicio è sì buono, ch’elle non hanno mestiero di libri, i quali bisognano all’huomo, perché manca di memoria et di sapere” (Domenichi, 1552: 36). alle più realistiche, espresse anche nello stesso dialogo di Domenichi, secondo cui le donne non scriverebbero per mancanza di un’adeguata istruzione e perché costrette nel loro ruolo predefinito all’interno della famiglia. Nel discorso sulle donne viene quindi posto il problema dell’istruzione femminile, ma da nessuna parte, per ovvie ragioni, si legge che le donne dovrebbero effettivamente studiare come gli uomini ed esporre pubblicamente il loro punto di vista. Si legge semmai che il trattamento riservato alle donne è ingiusto e frutto dell’invidia e della tirannia maschile, ma tutto il discorso resta nel campo dell’ipotesi e della retorica: ‘Se le donne studiassero, potrebbero...’, senza alcuna proposta effettiva affinché tale ipotesi possa realizzarsi. Anche le donne che tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento intervengono nella Querelle, come Moderata Fonte e Lucrezia Marinella sollevano il problema, usando gli stessi argomenti usati dai loro predecessori, con la differenza fondamentale, però, che loro stesse, nel momento in cui scrivono, dimostrano in pratica la loro sapienza e quindi l’idea stessa che le donne se educate come gli uomini, potevano eccellere nello studio.

Nella trattatistica di comportamento, di contro, come prevedibile, viene ribadito il ruolo tradizionale delle donne. Se le virtù femminili tradizionali e le relative donne esemplari che ne erano dotate vengono esaltate anche nei manuali di comportamento rivolti alle donne, la questione dello studio viene riconsiderata e limitata. Secondo quanto scrive Lodovico Dolce nel suo Dialogo della instituzion delle donne (1545), ad esempio, era bene che le donne imparassero a leggere e scrivere per tenere la mente occupata dalle frivolezze, ma per conservare castità e decoro, dovevano leggere solo determinati libri adatti al loro status. Oltre a letture edificanti di argomento religioso, dovevano limitarsi esclusivamente a libri contenenti buoni precetti di filosofia morale, poiché alla donna “non appartiene tener scola, o disputar tra gli uomini”. Le donne colte e “filosofanti” che popolano i trattati sull’eccellenza femminile e che trattano da pari filosofi quali Socrate e Pitagora, non troverebbero quindi spazio nella società rinascimentale ideale, in cui alla donna si addice il silenzio (Sanson 2007: 34-40). Si verifica quindi un’impasse tra figure eccezionali e inimitabili, dotte e loquaci, espressione del potenziale delle donne, e donne ideali dei trattati di comportamento incastonate in ruoli precisi e definiti. Le donne reali, soprattutto quelle che avevano una certa istruzione e che volevano prendere la penna in mano, si trovavano quindi a destreggiarsi in questa impasse, da una parte cogliendo l’occasione di un momento particolarmente propizio, in cui le donne, nel bene e nel male, erano al centro dell’attenzione, dall’altra subendo una cultura e una società che non le riconoscevano completamente. È quindi plausibile che i continui riferimenti alle donne illustri del passato e del presente e la letteratura volta ad esaltare il genere femminile, e che era alimentata dalle donne che scrivevano, abbiano influenzato e incoraggiato altre donne a trovare l’autostima necessaria per prendere la penna in mano ed esprimere pubblicamente il loro punto di vista sul mondo, a mettere, cioè, in pratica quell’istanza puramente ipotetica proposta dai trattati filogini, anche andando oltre quello che era accettabile per una donna. Testi che fondamentalmente nascevano come esercizi retorici per mostrare che anche le tesi più paradossali come la superiorità della donna fossero dimostrabili (Daenens: 1983 e 1985), avrebbero, quindi, in ultima analisi, contribuito a far acquisire alle donne l’autorevolezza e la legittimazione necessarie per eccellere nello studio e scrivere. Sebbene i trattati di comportamento, pubblicati in gran quantità in periodo controriformistico auspicassero il contrario, verso la fine del secolo, alcune donne affrontarono temi e generi nuovi, di appannaggio tipicamente maschile come la filosofia e l’epica, appigliandosi forse proprio a quelle mitiche filosofe del passato che popolavano la trattatistica sulla donna. Segni di questa possibilità emergono negli scritti delle donne attive alla fine del Cinquecento, non solo nei più ovvi e noti contributi alla Querelle di Moderata Fonte e Lucrezia Marinella, ma anche nei rari scritti di filosofia naturale, completamente privi, come era invece il caso ad esempio della poesia lirica, di una genealogia femminile contemporanea di riferimento.

Verso la metà del secolo venne dato alle stampe un notevole numero di volgarizzamenti e adattamenti di opere di Aristotele, soprattutto di filosofia naturale. Una delle motivazione addotte dai traduttori, per quello che era in molti casi un progetto di ampio respiro, era proprio di rendere accessibili testi filosofici, soprattutto aristotelici, a un pubblico più ampio, tra cui le donne (Caroti 2003; Sgarbi, 2016). Alessandro Piccolomini, già autore del dialogo La Raffaella o della bella creanza delle donne (1539), fu uno dei principali promotori di opere filosofiche in volgare rivolte alle donne, che non conoscendo nella maggior parte dei casi il latino a causa di un’istruzione non adeguata, erano impossibilitate a leggere opere filosofiche e scientifiche (Panizza, 2016). Ma Piccolomini non era l’unico. Dedicati a donne e pensati per un pubblico femminile erano anche la traduzione dalli spagnolo del trattato Della filosofia naturale di Juan de Jarava (1557), dedicato dal traduttore Alfonso de Ulloa e, come vedremo, i Discorsi sopra le Metheore d’Aristotele (1584) del Raguseo Nicolò Vito di Gozze. Alle stesse donne che in teoria, secondo Dolce, non dovevano preoccuparsi di dibattiti filosofici, vengono quindi proposte opere di filosofia in volgare su cui riflettere. Che fosse o meno una strategia editoriale, sull’onda del successo del discorso sulla donna o che corrispondesse a una reale richiesta da parte del pubblico, è un dato di fatto che questi testi, soprattutto quelli di filosofia naturale, erano effettivamente letti da alcune donne8. Certo lo scopo non era quello di forgiare novelle Diotime, né di ovviare le disparità tra i sessi, ma sicuramente letture del genere stimolarono la curiosità di alcune, che a loro volta decisero di contribuire al dibattito, o comunque lasciare traccia di queste letture nelle loro opere. Nell’ambito di questo contesto prenderò in esame due casi importanti che mostrano la correlazione tra donne e filosofia naturale in volgare che per trovare una legittimazione chiamano in causa la Querelle, ricollegandosi proprio alle donne illustri del passato.

Tra i testi divulgativi di filosofia naturale rivolti a un pubblico femminile, notevole è il caso dei Dirscorsi sopra le Metheore di Aristotele di Nicolò Vito di Gozze pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1584. Si tratta di un dialogo tra l’autore e Michele Monaldi, in cui viene spiegata la Meteorologia di Aristotele in termini accessibili a un vasto pubblico. Il testo in sé non presenta nulla di diverso, a parte la forma dialogica, dai numerosi volgarizzamenti o compendi in volgare della Meteorologia di Aristotele, uno degli scritti di Aristotele meno complessi e che vide il maggior numero di adattamenti e traduzioni per un pubblico di non specialisti. Quello che lo rende particolarmente interessante è la lettera dedicatoria scritta dalla moglie dell’autore Maria Gondola (Mara Gundilice) indirizzata  alla nobildonna ragusea Fiore Zuzori o Zuzzeri (Gondola, 2016). La lettera si presenta come un piccolo trattato sulla superiorità delle donne e la loro abilità nello studio e nella produzione di pensiero, che riassume tutti gli argomenti in favore della donna tipici del genere. Quindi, secondo la prassi, propone anche un elenco di donne illustri, concentrandosi soprattutto su quelle che si erano distinte per la loro sapienza. Il fatto che sia una donna a scrivere una difesa delle donne è una novità degna di nota. Sebbene infatti la Querelle avesse coinvolto un nutrito numero di autori, un trattato vero e proprio scritto da una donna non era ancora entrato in tipografia, sebbene evidentemente i tempi fossero maturi. Inoltre, la lettera va a creare un’interessante connessione tra Querelle e scienza divulgativa, tra donne illustri e lettrici del tempo: se le donne erano perfettamente in grado di apprendere e di pensare come gli uomini se non meglio, come la letteratura a favore delle donne dimostrava ampiamente; se nei tempi antichi alcune donne si erano distinte per saggezza e dottrina, le donne contemporanee avrebbero potuto eguagliarle se spinte ad approfondire le loro conoscenze filosofiche e ad ampliare la loro cultura. D’altra parte, il fatto che la dedicatoria sia firmata da una donna e indirizzata a un’altra donna è un chiaro segno della piena consapevolezza dell’autore dell’opera, che certamente ha avuto un ruolo non indifferente nella scelta della dedicatoria, dell’esistenza di un potenziale pubblico femminile e del fatto che fosse il momento per proporre il punto di vista delle donne anche in ambito filosofico. Questo dà alla lettera il sapore di uno stratagemma editoriale, sull’onda della Querelle e del notevole numero di donne che scrivevano e che verso la fine del secolo avevano ampliato i loro orizzonti sperimentato nuovi generi letterari. Tuttavia, questo non ne mette in discussione la novità né il significato.

Dopo un’invettiva contro la Repubblica di Ragusa per aver diffamato la dedicataria e costretta a lasciare la città – invettiva peraltro eliminata nell’edizione successiva del 1585 a causa di successive polemiche – e un elogio della sua bellezza che, platonicamente, era espressione delle virtù della sua anima, nella lettera vengono presentati i principali argomenti a favore della superiorità della donna, suggellati da esempi di donne illustri. Gondola spiega le motivazioni che l’hanno spinta a cercare la “protezione del sesso femminile” , motivazioni, che si rifanno alla Querelle.

Lo scopo della lettera sarebbe quindi di dimostrare, mediante gli argomenti tipici della trattatistica filogina, che le donne possano accedere come gli uomini allo studio delle scienze. Da una lettura attenta emerge che la parte della lettera in cui vengono proposte le topiche argomentazioni in favore della donna, che vanno dall’etimologia del nome, all’annoso argomento della mollezza della carne, è completamente tratta o adattata dalla Questione dove si tratta chi più meriti onore, o la donna, o l’uomo contenuta nel libro Dell’honor vero e del vero dishonore di Girolamo Camerata (1567) (Carinci, 2016: 26). Il libro di Camerata, di natura fondamentalmente paradossale e accademica, dimostra retoricamente tutto e il contrario di tutto riguardo a una serie di questioni, tra cui, appunto la superiorità dell’uomo o della donna. Nella lettera di Gondola viene preso alla lettera per dimostrare che le donne erano in grado leggere un libro di filosofia naturale, seppure in versione semplificata.

Testi consultati:

Boccaccio, G. Libro delle donne illustri. Milano: Mondadori, 22018;
Carinci E. Una “speziala” padovana. Le lettere di Philosophia naturale di Camilla Erculiani. Torino: Einaudi, 2000;
Sanson, E. Donne precettistica e lingua mell’Italia del Cinquecento. Torino: Einaudi, 2013.

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
email: arch.biblio.lodes@tiscali.it