UIL

La Frontiera

Per affrontare la problematica riguardante un concetto intimamente legato a Trieste, quello di «frontiera», assieme alla «cultura e letteratura di frontiera», e’ necessario fare un’excursus storico. Si rende necessario analizzare il particolare inserimento della città adriatica nella dinamica fluttuante del rapporto fra centro e provincia nello spazio mitteleuropeo, accennando che, alla fine della prima guerra mondiale, Trieste diventa un centro periferico, situato all’estremo confine orientale d’Italia, in altre parole, una vera e propria «città di frontiera».

L’esito infausto del secondo conflitto mondiale strappò poi, per nove anni, la città all’Italia, confinandola, tra il trattato di pace del 1947 e il cosiddetto memorandum d’intesa del 1954, controllato dall’ONU che non fu mai realmente costituito e che rappresentò la continuazione dell’occupazione militare alleata cominciata nel 1945. Trieste, ancora incerta sul proprio futuro, “sente farsi più angusta, più angosciosa e più opprimente la propria posizione di città priva di certezze e sospesa nel vuoto, di città di confine, in anni nei quali, come forse mai nel passato, confine è sinonimo non certo di dialogo e di mediazione, ma di chiusura e di separazione, di frontiera tra paesi, tra ideologie e, sia pure per poco, tra blocchi contrapposti di potenze”.

Il concetto di frontiera, con riferimento a Trieste e Gorizia, fu elaborato all’inizio del Novecento da intellettuali come Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Scipio Slataper, per poi essere continuamente messo in discussione, nei suoi vari aspetti, dagli scrittori e uomini di cultura appartenenti non solo a questo spazio, tra i quali si distinguono Giuseppe Ungaretti, Elias Canetti, fino a Claudio Magris, Fulvio Tomizza, Joseph Zoderer, Alois Rebula.

Iniziamo con la definizione di Fulvio Tomizza, la cui vita si costituisce in un vero e proprio «destino di frontiera», onde la qualifica che gli venne attribuita – «scrittore di frontiera». Nella sua visione, “frontiera reale, frontiera «per antonomasia», è quel territorio sempre conteso, e in definitiva sempre estraneo ai contendenti, che alla sommità dell’Adriatico si insinua tra Italia, Austria e Jugoslavia, nel quale si radicano il mio destino di uomo e la mia ricerca di narratore”. Nel saggio del 1987 intitolato Frontiera reale, l’autore completa: “È un angolo di terra estremamente variegato e tuttavia inscindibile, che di fatto oggi non appartiene nemmeno ai nativi del luogo, in buona parte costretti a vivere lontano (a doversi ricavare nuovi spazi di frontiera) e in minore porzione rimasti sul suolo dei padri per registrare il suo progressivo stravolgimento e la graduale riduzione della loro stessa identità”.

Sul piano storico-politico e geografico, la frontiera triestina rappresenta e soprattutto rappresentava essenzialmente la frontiera con l’Est, con quell’«altra» Europa e tutto ciò che deriva da tale statuto: “Quella che vedevo concretamente davanti a me, quando andavo a giocare sul Carso con i miei amici –scrive Claudio Magris nel saggio del 1993 intitolato Dall’altra parte. Considerazioni di frontiera era la Cortina di Ferro, la frontiera che tagliava in due, allora, il mondo intero e che correva a pochissimi chilometri da casa mia. Aldilà di essa cominciava quel mondo immenso, sconosciuto e minaccioso che era l’impero di Stalin, un mondo difficilmente accessibile, almeno sino all’inizio degli anni Cinquanta”.

C’è, però, da notare che quelle terre al di là del confine, che appartenevano all’«altra» Europa, erano state italiane sino a pochi anni prima, sino alla fine della prima guerra mondiale, quando erano state occupate e annesse dalla Jugoslavia. “Le avevo viste e conosciute nella mia infanzia –aggiunge lo scrittore– facevano e fanno parte costitutiva del mondo triestino, della mia realtà”. L’analisi continua mettendo in risalto il fatto che “al di là del confine c’erano, dunque, contemporaneamente, il noto e l’ignoto; c’era un ignoto che bisognava riscoprire, far ridiventare noto”, in quanto l’aggettivo «altra», nell’espressione l’«altra» Europa, “deriva certo in primo luogo dall’appartenenza all’universo staliniano, ma marcava pure un’ignoranza da parte occidentale. […] Questa diffusa ignoranza era ed è spesso tinta di disprezzo, intenzionale o inconsapevole”. Viene data anche la spiegazione, poco riconfortante, ma reale, di tale atteggiamento: “Ciò che sta a est appare spesso oscuro, inquietante, promiscuo, poco dignitoso; c’è una tendenza a identificare l’est col negativo. Il principe di Metternich diceva che a Vienna, oltre il Rennweg, la grande arteria che attraversa la capitale austriaca, cominciavano i Balcani, termine col quale egli intendeva qualcosa di confuso e indistinto, di peggiorativo; oggi, a Ulm, molti chilometri a ovest di Vienna, si dice che a Neu-Ulm, oltre il Danubio che attraversa la città, incominciano i Balcani, termine che anche in questo caso non è un complimento”.

Per il suo statuto, Trieste era chiamata all’epoca «piccola Berlino»; la Cortina di Ferro era vicinissima e, almeno sino alla metà degli anni Cinquanta, divideva la città dal suo retroterra e dunque da se stessa. “Si aveva talora la sensazione non soltanto di vivere su una frontiera, ma di essere una frontiera”. Il paragone con Berlino si faceva ancor di più nel caso di Gorizia, città letteralmente divisa in due.

Sul piano psicologico e spirituale, la frontiera ha un significato ambivalente che accomuna il positivo ed il negativo in un complesso non privo di forti tensioni: “La frontiera è duplice, ambigua –rileva Claudio Magris– talora è un ponte per incontrare l’altro, talora una barriera per respingerlo. Spesso è l’ossessione di situare qualcuno o qualcosa dall’altra parte”. Lo scrittore aggiunge poi, approfondendo l’argomento: “Ci sono città che si trovano sul confine e altre che hanno i confini dentro di sé e sono costituite da essi. Sono città cui le vicende politiche tolgono parte della loro realtà, come il retroterra, il forte legame con il resto del territorio nazionale; la storia le slabbra come una ferita e fa di esse un teatro del mondo, vale a dire un teatro dell’assurdo. È in queste città che si esperimenta in modo particolarmente intenso la duplicità della frontiera, i suoi aspetti positivi e negativi; i confini aperti e chiusi, rigidi e flessibili, anacronistici e travolti, protettivi e distruttivi”.

Un’idea simile si ritrova anche nello studio Trieste. Un’identità di frontiera, dove viene sottolineato il fatto che “la frontiera è una striscia che divide e collega, un taglio aspro come una ferita che stenta a rimarginarsi, una zona di nessuno, un territorio misto, i cui abitanti sentono spesso di non appartenere veramente ad alcuna patria ben definita o almeno di non appartenerle con quella ovvia certezza con la quale ci si identifica, di solito, col proprio paese. Il figlio di una terra di confine sente talora incerta la propria nazionalità oppure la vive con una passione che i suoi connazionali stentano a capire, sicché egli, deluso nel suo amore che non gli sembra mai abbastanza corrisposto, finisce per considerarsi il vero e legittimo rappresentante della sua nazione, più di coloro per i quali essa è un dato pacificamente acquisito”.

Il giudizio va avanti sotto il segno di altri due verbi antitetici messi insieme –separare e unire– dopo la coppia precedente, dividere e collegare: “Ma la frontiera, la quale separa e spesso rende nemiche le genti che si mescolano e si scontrano sulla sua linea invisibile, anche unisce quelle stesse genti, che si riconoscono talora affini e vicine proprio in quel loro comune destino che le grandi madrepatrie non riescono a capire in quel loro sentimento segreto d’inappartenenza, in quell’incertezza e in quell’indefinibilità della loro identità”.

Fulvio Tomizza condivide le stesse posizioni teoriche, sostenendo che, da una parte, la frontiera può essere motivo di arricchimento: si può disporre di due o più educazioni, culture, lingue, esperienze, a volte anche religioni. Quindi si dovrebbe essere in una condizione di privilegio, sul displuvio di due o tre mondi. In realtà questa situazione si risolve spesso in una perdita di identità. Invece di avvicinare i popoli e i governi, di funzionare da cerniera fra razze diverse, queste situazioni di frontiera a volte sono causa di conflitti e, sul piano privato, di uno scontento, di un’estraniazione continui. C’è dunque un diritto e un rovescio della medaglia. Di fronte a questa realtà della frontiera, lo scrittore esprime la sua professione di credenza: “Io ho cercato di pormi come conciliatore, dopo lacerazioni terribili. Misto, tirato da più parti come sono, non potevo fare altro”.

In un altro contesto, Tomizza viene a confessare i complicati processi interiori che implicano lo statuto di «uomo di frontiera», statuto descritto benissimo dal destino di colui che, nato e cresciuto a Materada d’Umago, in Istria, si trasferì a Trieste al definitivo passaggio del suo paese sotto l’amministrazione jugoslava. Le sue parole rivelano la concezione che gli ha marcato in maniera inconfondibile l’opera letteraria: “In sostanza, per il padre e contro il padre, forzando comunque la sua ultima aspirazione, che era soprattutto brama di morte, io non avrei fatto altro che cercare di sciogliere quel «contrasto irriducibile», rendere attuabile «l’impossibile riconciliazione». Prima di tutto dentro me stesso, per non dover più scegliere tra le diverse e magari opposte componenti di sangue, di cultura, di mentalità, ma tentando piuttosto di accordarle, riconoscendole proprie di un uomo di frontiera, sentendole stimolanti anziché gravose. Ciò mi avrebbe spontaneamente portato, anche con gli scritti, ad allargare la mia frontiera, sconfinando in altre etnie, in altre fedi, in altre regioni dei vari Paesi che vi si affacciano, con la sensazione di trovarmi sempre nella mia parrocchia. Alla quale sono tornato, per trascorrervi almeno due stagioni di piena luce, lasciarmi condurre e accarezzare dal suo paesaggio che ne ha viste tante e probabilmente ne vedrà di altre e tuttavia continuerà, impassibile, a riproporre la sua eterna mutabilità, la sua mutabile eternità”.

In questa maniera possiamo scoprire, accanto allo scrittore, i significati profondi delle opzioni di chi si trova alla frontiera tra due mondi e due culture. Si tratta fondamentalmente del carattere morale e riparatore di tali scelte, soprattutto sul piano individuale, mentre su quello dei rapporti interumani, il primato spetta al rispetto reciproco: “Nel panorama di un mondo forzatamente o disinvoltamente incline al possibilismo e al trasformismo, la mia scelta aveva ed ha soprattutto carattere morale e riparatore, sul piano in primo luogo individuale. Se intendo almeno in parte attingere all’eternità della natura, la quale può benissimo permettersi di essere per la gioia di noi tutti anche mutevole, ebbene devo saldare la mia necessaria molteplicità col cemento della coerenza, costi pure essa solitudine, silenzio, rinuncia, dimenticanza. Soltanto così da luogo di congeniti attriti, la frontiera può rovesciarsi in oasi di pace, in una piega di territorio non omologato, dove accanto alle reliquie di antichi idiomi persistano la lealtà e il rispetto dell’altro”.

Il problema più acuto sotto l’aspetto psicologico è quello dell’identità, sia individuale, sia collettiva. In merito alla prima, Claudio Magris notava: “Sin da bambino capivo, sia pur vagamente, che, per crescere, per formare la mia identità in un mondo non completamente scisso, avrei dovuto varcare quella frontiera –e non solo fisicamente, grazie al visto su un passaporto, bensì soprattutto interiormente, riscoprendo quel mondo che era al di là del confine e integrandolo nella mia realtà”. Nell’allargare la prospettiva, lo scrittore considera che, essenzialmente, “ogni confine ha a che fare con l’insicurezza e col bisogno di una sicurezza. La frontiera è una necessità, perché senza di essa ovvero senza distinzione non c’è identità, non c’è forma, non c’è individualità e non c’è nemmeno una reale esistenza, perché essa viene risucchiata nell’informe e nell’indistinto. La frontiera costituisce una realtà, dà contorni e lineamenti, costruisce l’individualità, personale e collettiva, esistenziale e culturale”.

Anche per quanto riguarda l’identità collettiva, la condizione di frontiera produce spesso un sentimento d’incertezza, d’inappartenenza ed estraneità; un contraddittorio sentimento di vivere al centro e insieme alla periferia della vita. La città, che sino al 1954 era un Territorio Libero amministrato dagli americani e dagli inglesi, faceva e non faceva parte dell’Italia; era più facile che altrove dubitare di avere un futuro, non si sapeva bene chi e che cosa si era e ciò induceva a continue messinscene della propria identità. La coscienza collettiva si sentiva soffocata da ogni parte da confini, ma si circondava a sua volta febbrilmente di nuove frontiere, per sfuggire a ogni precisa appartenenza e per costruirsi un’identità grazie a questa alterità esasperata.

In questa prospettiva, il concetto di «frontiera» è connesso ad un altro, quello di «Heimat» (paese, luogo, terra natale, patria), a proposito del quale Joseph Zoderer affermava che, per quanto strano e assurdo ci possa sembrare, l’uomo sembra voler essere prima certo di sé e appena dopo accertarsi del mondo che lo circonda. Sprofondato in una vita catastrofica o forse nonostante questa, l’individuo cerca proprio come le minoranze culturali o etniche, un’identità e un riconoscimento della sua peculiarità, come uno che, nella casa che va a fuoco, cerca disperatamente il suo certificato di nascita. “Io credo che questa identità sia un’esigenza fondamentale dell’uomo, proprio come l’aria, l’acqua e il pane. La dignità di sé, la capacità di proteggere e custodire la propria identità, la necessità di riaccettarsene in continuazione”.

Testi consultati:

- Ara e Magris. Trieste. Un’identita’ di frontera. Torino: Einaudi, 1986

- Magris, C. D’altra parte. Considerazioni di frontiera. Milano: Garzanti, 2001;

- Magris, C. Utopia e disincanto. Milano: Garzanti, 2001;

- Tomizza F. Alle spalle di Trieste (Scritti, 1969-1994), Bompiani, Milano 1995; 

- Zoderer, J. A propósito di Heimat, in AA. VV., Cultura di confine, istituto per gli incontri Culturali Mitteleuropei. Atti del XXIX Convegno, Grafica Goriziana, Gorizia 1996.

Prof. Alessio Lodes
Pordenone (Italia)
prof_biblio_lodesal@yahoo.com